Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

mercoledì 29 settembre 2010

This Land Is Your Land – Woody Guthrie

Scritta nel 1940 in risposta all’ottimismo borghese di God Bless America di Irving Berlin, This Land Is Your Land si è fatta progressivamente strada nei cuori della working class americana, trasformandosi da inno patriottico studiato a scuola in masterpiece delle battaglie sociali e dei diritti civili. Ha infervorato la gioventù di Bob Dylan, trascinandolo verso la professione della musica (ascoltate la sua versione live del 1961 contenuta in No Direction Home: The Soundtrack, The Bootleg Series Vol.7, incredibilmente lenta e sofferta, ogni nota è un graffio, ogni accordo un pugno…); ha scolpito la maturità di Bruce Springsteen (cominciò a cantarla per protesta a 30 anni, all’epoca della campagna elettorale di Reegan per la presidenza USA, si trova incisa in Live/1975-85); ha conosciuto nuova vita verso la fine degli anni Ottanta per via della riscoperta della musica di Guthrie e Leadbelly da parte dello star system dell’epoca (procuratevi Folkways: A Vision Shared, con interpretazioni che vanno da Willie Nelson agli U2); ha raggiunto l’apice di notorietà grazie all’esecuzione di Pete Seeger, Springsteen e Tao Rodríguez durante la cerimonia di inaugurazione del mandato di Obama a Washingston nel gennaio 2009: una prova corale e festosa che traduce in emozioni la lotta per un ideale e rinnova il sospetto che forse la musica un po’ il mondo lo può davvero cambiare. This Land Is Your Land ha percorso le generazioni come un fiume carsico, forte di un messaggio da condividere. Il testo gioca su una contrapposizione di immagini. Nelle prime strofe si parla della bellezza dei luoghi commentati col verso

Questa terra è stata fatta per te e per me.

Improvvisamente il testo vira in negativo e si passa alla descrizione di alcune ingiustizie che sporcano l’incanto dei paesaggi:

Stavo camminando, quando ho visto un cartello
E sul cartello c’era scritto “Vietato entrare”,
ma dall’altra parte non c’era scritto niente
Quella parte è fatta per te e per me.

All’ombra di un campanile ho visto la mia gente
all’ufficio dell’assistenza sociale,
mentre loro stavano lì affamati, io ero lì che mi chiedevo
“È davvero questa la terra che è stata creata per te e per me?”

Tutto questo è molto simile a quanto si sperimenta nelle aziende: privilegi e crisi finanziarie mettono a dura prova la sensibilità di chi si sente attaccato alla maglia. Arriva un capo nuovo, si diversifica il mercato, si cambia strategia: si chiede fermezza, ma si pretende flessibilità. Si prova la sensazione che ci venga tolto quello che sentiamo nostro e un po’ è davvero così perché in fondo abbiamo contribuito a crearlo. A volte si tratta solo di un lungo temporale, altre volte di qualcosa di definitivo. A questa seconda ipotesi non c’è un vero rimedio, ma esiste una modalità di prevenzione: trovare soddisfazione non tanto nel risultato (che è qualcosa di cui comunque, esattamente come di un prodotto artistico, godranno altri) quanto nell’idea, nell’iniziativa, nell’operosità dell’azione e allora

Nessun essere vivente potrà mai fermarmi
mentre sto camminando su questa strada di libertà,
nessun essere vivente potrà mai farmi tornare indietro:
questa terra è stata creata per te e per me.

E così il nostro spazio, la nostra cifra, la nostra unicità saranno preservati.


venerdì 24 settembre 2010

Workingman’s Blues #2 – Bob Dylan

Nel 2006 Bob Dylan pubblica Modern Times, album denso di rimandi alla tradizione musicale americana, forse ingiustamente criticato per l’eccesso di citazioni se si considera la cultura oltre la norma del suo autore, abituato a trattare il testo come letteratura pura (sarebbe come accusare Dante di aver copiato dalla Bibbia!). Tra le canzoni colpisce il moto perpetuo di Workingman’s Blues #2, un andamento cantilenante che fa venire in mente un vecchio contadino che cammina sui campi appena arati, il cappello di paglia, un sacco di iuta sulla schiena, l’incedere ritmico dei passi caracollanti sulle zolle, la mano che sparge sementi con gli occhi fissi al tramonto. Probabilmente suggestionato da Workin’ Man Blues di Merle Haggard, un successo country venato di blues del 1969, il testo di Dylan denuncia una di quelle situazioni che di solito non trovano posto nei telegiornali:

Il potere d'acquisto del proletariato è andato giù
il denaro sta diventando più superficiale e debole
/…/
dicono che i salari bassi sono una realtà
se vogliamo competere con l'estero.

La crisi agita i pensieri e avviluppa la mente nella depressione, ai problemi si aggiungono problemi, l’uomo perde l’autostima, i giorni si fanno grevi, le notti tutte uguali, la mancanza di giustizia sociale mette in crisi gli apparati valoriali, ancora un passo e si scivola nel nichilismo:

Mi hanno bruciato il granaio, hanno rubato il cavallo
non posso risparmiare un centesimo,
devo stare attento, non voglio esser costretto
a una vita di crimine perpetuo.

L’uomo si aggrappa alla sua storia, cerca conferme in quello che è stato, ma è difficile quando devi tener duro senza che nessuno si accorga di te o quando sei circondato dalla superficialità di chi è partito più in alto e i tuoi problemi non solo non se li pone, nemmeno li vuole vedere. Così alla fine non resta che riconoscersi nella solidarietà di un progetto e dare corpo a un impegno che è militanza e passione:

Incontriamoci lì in fondo, non restare indietro
portami i miei stivali e le mie scarpe
puoi esitare o combattere nel miglior modo
possibile sulla linea del fronte
cantando un po’ di questo blues del lavoratore.

Mentre la canzone sfuma, un violino si insinua tra gli strumenti e suona come l’effetto di una carezza calda o come la mano protesa verso di noi dal vecchio Bob, nostro fratello sul sentiero dell’esistenza.

venerdì 17 settembre 2010

Like a Rolling Stone - Bob Dylan

Springsteen ha detto che quando ha ascoltato il colpo di batteria che saluta questa canzone, è come se qualcuno gli avesse aperto a calci le porte della mente. Ma questo è solo uno dei tanti commenti lusinghieri che circonda quella che è considerata la più grande canzone rock di tutti i tempi.
Nata da una “vomitata emotiva” lunga venti pagine, poi condensata in sei minuti di canzone rock (ma nella gestazione compositiva attraversò anche una fase pianistica in ¾ molto più soft), Like a Rolling Stone stupisce sempre per la sua immediatezza e per le impietose immagini che descrive. Coverizzata un po’ da tutti – da Jimi Hendrix a Bob Marley, dai Rolling Stones agli Articolo 31 – non delude mai, tanto è potente il polmone d’energia a cui attinge.
La versione più significativa rimane forse quella registrata dal vivo il 17 maggio 1966 alla Free Trade Hall di Manchester. Dylan, accompagnato dalla Band di Robbie Robertson e Rick Danko, dilata il brano a oltre otto minuti di durata complessiva, stonando in modo così perfetto da far invidia ai futuri Sex Pistols. Durante quel tour in Inghilterra, Dylan fu criticato apertamente e in modo quasi violento. Celebre lo scambio di parole con uno spettatore. “Judas”, gli gridarono dalla platea, “I don’t believe you… you are a liar” risponde Bob e poi, giratosi verso la Band: “Play it fucking loud!”. E giù di chitarre elettriche, batteria, organo Hammond ecc.. Dylan aveva scelto: la sua musica era cambiata per sempre.
L’attacco di vomitosi del testo si riferisce a una ragazza cresciuta negli agi, abituata a non chiedere mai, semplicemente a prendere, che ha coltivato la superficialità e l’indifferenza per il diverso, guardando tutti dall’alto, sfuggente e inarrivabile (personaggio in parte rivisitato da Ligabue in Eri bellissima, 2002), ha fatto scuole raffinate, ma alla fine non faceva che spassarsela.
Ora le cose sono cambiate: la ragazza per bene è diventata Miss Solitudine, ha perso tutto, soldi e certezze, e prova l’ebbrezza dell’assenza di punti fermi:

Come ci si sente,
come ci si sente
a stare per proprio conto
senza un posto dove andare
come una completa sconosciuta,
come una pietra che rotola?

Da principessa a vagabonda dell’essere, Miss Solitudine è costretta a scendere a patti con tutti quelli di cui si prendeva gioco e cui conferiva esistenza solo per il proprio sollazzo. La ragazza non è più in condizione di scegliere niente perché a nessuno ti puoi rifiutare

Quando non hai niente, non hai niente da perdere,
ora sei invisibile, non hai segreti da nascondere.

Chi sono gli omologhi aziendali di Miss Solitudine? Quelli che sono partiti già in alto, quelli che hanno preso le “scorciatoie”, quelli che non c’entrano niente ma hanno la faccia giusta, gli emuli del Marchese del Grillo («Mi dispiace, ma io so’ io, e voi nun siete un cazzo!»), i figli e parenti di, quelli con gli stipendi gonfiati, i tesserati, i paraculi e i miracolati. Ma prima o poi la ruota gira perché nelle aziende agisce la legge della compensazione. Così Like a Rolling Stone diventa una canzone sul karma, un po' di pazienza per favore…

mercoledì 15 settembre 2010

Maggie's Farm - Bob Dylan

Il 1965, è cosa nota, è un anno cruciale per la carriera di Bob Dylan e più in generale per la storia del rock. Sbrigativamente potremmo dire che in quell'anno il celebrato folksinger è diventato “elettrico”, ma più correttamente dovremmo dire che, elettrificando la sua musica, Dylan ha portato ordine nel mondo del rock e soprattutto l’ha obbligato a confrontarsi con un contenuto di pensiero che poteva essere nobilitato da una forma elevata. Insofferente alle etichette, carattere a dir poco schivo che tutto sommato si è divertito a giocare con la popolarità molto più di quanto non abbia cercato di convincere i suoi biografi, Dylan si presenta il 25 luglio al Newport Folk Festival (tempio acustico per eccellenza dove già era stato venerato nei due anni precedenti), accompagnato dai membri della Paul Butterfield Blues Band e, contrappuntato dalle sciabolate di Michael Bloomfield abbarbicato in posizione fetale a una Fender Telecaster bianca, ingaggia una virulenta Maggie’s Farm. Il pubblico, revivalisti e giovani di buona famiglia, reagisce male, ma ormai il dado è tratto, il profeta ha vaticinato: la cultura democratica americana può e deve integrare i suoi elementi in una sintesi potente quale è la musica che gli amplificatori di Newport stanno diffondendo.
Il brano d’apertura del set di Dylan è una canzone di protesta dedicata al mondo del lavoro:

Non lavorerò mai più alla fattoria di Maggie
No, non lavorerò mai più alla fattoria di Maggie.

Perché mentre lavori il fratello di Maggie ti tira le monetine con disprezzo, suo padre ti sbuffa il sigaro in faccia e sua madre anziché sostenerti passa il tempo a farti prediche sulla legge e su Dio, fingendo di non sapere che chi viola i precetti è proprio la famiglia di Maggie. Ma il protagonista della canzone va oltre e fa un’osservazione psicologica che, in tempi di dittatura delle corporation, suona molto attuale:

Faccio del mio meglio
per restare quello che sono,
ma tutti pretendono
che tu sia come loro.

Per resistere in quelle condizioni, canta Bob, la scorciatoia suggerita dai datori di lavoro è quella di rinunciare a se stessi e farsi dire da loro chi sei, quanto vali e dove puoi arrivare. Ma tu non devi cedere.
Così Maggie’s Farm diventa un’invettiva contro l’omologazione, la risocializzazione, il pensiero unico e un inno alla riappropriazione di sé.
Ed ecco spiegata la rivoluzione di Dylan: una canzone dalla struttura country blues, aggiornata nei contenuti e nell’arrangiamento, confluisce nel rock portando sostanza, dignità, valori e trascendendo il tempo come tutti i prodotti culturali di alto livello.

martedì 14 settembre 2010

The Ghost of Tom Joad - Bruce Springsteen

Procediamo con ordine: in principio fu John Steinbeck, che creò il soggetto e lo fece protagonista del suo romanzo Furore (1939); l’anno successivo uscirono l’adattamento cinematografico del libro per la regia di John Ford e quello musicale ad opera di Woody Guthrie (la ballata intitolata Tom Joad); nel 1995 il secondo album acustico della carriera di Bruce Springsteen sarà trainato da un brano venuto fuori dalle trincee della coscienza, The Ghost of Tom Joad, che darà il titolo all’intero lavoro.
La storia di Tom Joad si svolge al tempo della Grande Depressione ed è la storia di tanti eroi sconosciuti che non chinano la testa di fronte al sistema che ha generato la loro miseria. Bruce riambienta la vicenda ai tempi nostri: lo spettacolo esibito agli occhi di un emigrante degli anni Novanta non è poi così diverso da quello che toccava in sorte a un Okie degli anni Trenta. Anche perché il vero paesaggio è quello interiore e i chiaroscuri dell’animo umano sono sempre gli stessi, resi forse più malinconici dalle proporzioni planetarie del fenomeno e dal fallimento di quello che qualcuno si ostina ancora a chiamare progresso:

Benvenuti nel Nuovo Ordine Mondiale,
nel sud est ci sono famiglie che stanno dormendo nelle loro auto,
niente casa, niente lavoro, niente pace, niente riposo.

Così il protagonista della canzone si accovaccia davanti al fuoco e, inseguendo le morbide lingue lucenti che si innalzano al cielo, cerca il fantasma di Tom Joad mentre ricorda le parole con cui quest’ultimo si congedò dalla madre:

«Mamma, dovunque c’è un poliziotto che sta picchiando un ragazzo,
dovunque c’è un neonato affamato che piange,
dove c’è una battaglia contro il proprio sangue e c’è odio nell’aria,
cercami mamma, io sarò lì.

Dovunque c’è qualcuno che sta lottando per un posto dove stare
o un lavoro decente o una mano che l’aiuta,
dovunque qualcuno sta combattendo per essere un uomo libero,
guarda nei suoi occhi, mamma, e mi vedrai».

È una canzone sui diritti civili, viene da dire, ma forse è qualcosa in più: descrive una scelta, un biglietto di sola andata, una patto con se stessi ed è anche un monito per tutti quelli che nelle aziende vedono il valore "giustizia" subire le offese di qualche capetto prepotente e lasciano che l'indifferenza seppellisca l'indignazione. Sicuramente è una canzone da ascoltare al buio: la chitarra sembra registrata due stanze più in là, la voce sembra farsi largo come un piccolo ragno tra le assi del parquet e l’armonica, beh, se l’anima ha un suono, penso sia proprio quello che si ascolta qui dentro.

lunedì 13 settembre 2010

Land of Hope and Dreams – Bruce Springsteen

Questa canzone viene pubblicata da Bruce Springsteen nell’album Live in New York City (2001) ed è documentata anche da un dvd ufficiale. È una canzone bipartita: la prima tranche si svolge sul tipico incedere della ballata rock (strofa-ritornello-strofa-ritornello), poi la canzone vira su un accordo in minore e strizza l’occhio al gospel, suggestionando il pubblico attraverso i cori della E Street Band. Springsteen, in grande forma vocale, prende spunto da uno spiritual tradizionale intitolato This Train Is Bound for Glory inciso da vari artisti tra cui Woody Guthrie e Big Bill Broonzy, ma se in quel caso il treno che viaggia verso la gloria celeste trasporta solo persone immacolate (niente ladri, speculatori, ubriaconi, bugiardi, imbroglioni ecc.) nel brano di Springsteen il treno diventa metafora del viaggio terreno e allora ecco che

Questo treno
Porta santi e peccatori
Questo treno
Porta perdenti e vincitori
Questo treno
Porta puttane e giocatori d’azzardo
Questo treno
Porta anime perdute.

Ma siamo al cospetto di una canzone ottimista perché si tratta di un viaggio verso la redenzione. E difatti su

Questo treno
I sogni non saranno frustrati
Questo treno
La fede sarà ricompensata.

Anche le aziende sono piene di santi e peccatori, perdenti e vincitori, donne di malaffare e persone senza scrupoli. Fa parte del gioco. Ma in azienda siamo tutti accumunati delle stesso destino: quello di passare. E allora non ci resta che decidere che tipo di segno lasciare. Quello dipende solo da noi.

sabato 11 settembre 2010

This Hard Land – Bruce Springsteen

Notizie dalla prateria: anche il Boss protegge i suoi tesori. Questa canzone risale al 1982, ma Springsteen la mantiene inedita fino al 1995, anno in cui la pubblica nel Greatest Hits in una seppur molto fedele nuova versione (il first cut si può ascoltare in Tracks del 1998). Compiendo un sacrilegio agli occhi dei fan perché si tratta in assoluto di uno dei suoi pezzi più belli.
La musica sembra uscita dalla penna di qualche folksinger itinerante americano di metà secolo – la voce bruciata dalla sabbia delle pianure texane – e distilla in tre accordi uno schema che si ripete e si vorrebbe non finire mai. Gli assoli di armonica sono un invito alla danza (quella dei saloon con cappelli, stivali e speroni) e qui si rimane sorpresi: perché Springsteen sembra celebrare la gioia della vita scomoda e del lavoro duro. Comincia il testo:

Hey signore, puoi dirmi
cosa è successo ai semi che avevo seminato?
Puoi darmi una ragione, signore,
sul perché non siano mai cresciuti?

E poi via con una collezione di difficoltà e insuccessi lavorativi che capitombolano tutti su «questa dura terra» di cui ci sembra di subire l'acredine e le increspature. Alla fine però tutto si riassume in un messaggio da tatuaggio che sfrega il cuore o da bandiera che ha attraversato mille battaglie:

Stay hard, stay hungry, stay alive.

Tieni duro, resta affamato, mantieniti vivo perché alla fine si tratta dell’unica terra che ti è stata data ed è proprio su di essa che ti devi giocare la vita. Così anche la fatica diventa un dono o, se preferisci, la più grande opportunità per capire chi sei.

Speranza e sogni in Manager Songbook

Rovistando tra le pieghe del mio libro Manager Songbook ho trovato queste frasi che descrivono come la penso a proposito delle parole che intitolano il mio blog.

Così mi esprimo a proposito della speranza:
“Rinunciare a sperare è come sottoscrivere una morale da schiavi, dove si starà anche in buona compagnia con la maggior parte della popolazione, ma dove la catalessi della creatività e l’accettazione acritica di un modello dominante finiranno col procurare una solitudine esistenziale ben più grave di quella avvertita durante il libero volo dell’aquila che portiamo nel petto” (p.158).
E così a proposito dei sogni:
“È preferibile il muto dolore di un sogno che non si avvera al non aver sognato mai. È un’inquietudine positiva quella di non sapersi accontentare, perché obbliga a stare desti, affamati, vivi. Dove c’è qualcosa che merita di essere migliorato ci deve essere un sogno, e tutto si può migliorare. Non la vita è sogno, ma il sogno è vita…” (p.176).

Qualche canzone da riascoltare?
Badlands, The Promised Land, This Hard Land, Land of Hope and Dreams tutte di Bruce Springsteen
We Shall Overcome di Pete Seeger
Blowin’ in the Wind, I Shall Be Released di Bob Dylan
A Change Is Gonna Come di Sam Cooke
(I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones
Redemption Song di Bob Marley
Pride (In the Name of Love) degli U2

mercoledì 8 settembre 2010

Manager Songbook - Piero Chiappano - 2010

Nel luglio del 2010 ho pubblicato il libro Manager Songbook. Rock e canzone d'autore per migliorare l'azienda (Edizioni de Il Sole 24 Ore). In questo libro filtro i temi del lavoro e delle multinazionali attraverso il setaccio della musica rock e della canzone d'autore. Testi famosi e vicende di artisti vengono presi a modello per descrivere vizi, virtù e competenze manageriali allo scopo di creare consapevolezza e responsabilità in chi dirige le aziende. Il libro dedica una digressione alla generazione degli anni Ottanta (che è anche la mia) e sottolinea come certa musica abbia svolto un ruolo più formativo in termini di strutturazione dei valori di quanto non abbiano saputo fare gli attori istituzionali. Si può diventare manager migliori grazie a Springsteen, Dylan, Johnny Cash, Battiato, Vasco Rossi, Ligabue, Tenco, Gaber, Jannacci, De André, Tiromancino, Fossati, Carmen Consoli, Ruggeri, Vecchioni, Bennato, De Gregori? Io credo di sì e - da fan, ex musicista, formatore aziendale - provo a raccontarlo con le mie parole. La prefazione è di Franco Mussida, grande musicista e grande uomo, che mi ha onorato della sua conoscenza e frequentazione.