Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

lunedì 28 novembre 2011

John, Yoko, gli indignados e Wall Street

In questi giorni l’informazione ha trasmesso un video imbarazzante in cui si vede un poliziotto americano spruzzare del gas urticante sui volti di alcuni giovani in pacifica protesta nei viali dell’università della California Davis, a San Francisco.


A sostegno del filmato alcuni TG hanno mandato in onda Give Peace a Chance di John Lennon. Il fatto non è casuale, vediamo perché.
John Lennon e Yoko Ono si sposano nel 1969 e trascorrono la luna di miele in un modo molto particolare: affittano per una settimana la suite presidenziale dell’Hilton Hotel di Amsterdam e da lì non escono mai. Anzi, aprono la suite ai giornalisti, che dalle 9 del mattino alle 9 di sera li ascoltano parlare –  John e Yoko vestiti di bianco –  di pace e di diritti civili e li immortalano in fotografie e filmati consegnati alla storia sociale del rock. L’evento, denominato bed-in, fa il giro del mondo e la risonanza è tale che la coppia decide di organizzarne uno dall’altra parte del mondo. Il luogo prescelto è il Queen Elizabeth Hotel di Montreal. Qui, in data 01 giugno 1969, viene immortalata in audio e video Give Peace a Chance, con Lennon alla chitarra acustica e un coro festoso e sgangherato di amici e sostenitori.


Il testo, che ruota intorno allo slogan “Date una possibilità alla pace”, è un invito a tagliare corto coi dibattiti inutili e le questioni ideologiche per lasciar emergere il senso del rispetto per l’altro, uscendo quindi dall’occasione della scrittura (la guerra del Vietnam) per assurgere ad invocazione universale.
Da questo punto di vista quindi la canzone risulta ancora attuale: perché la polizia si avventa su giovani pacifici e istruiti? Questi giovani sono solo rei di avere una coscienza sociale che si oppone alla barbarie ipercapitalistica della speculazione finanziaria nel nome di un mondo più giusto, non utopico, ma possibile. In fondo, dal momento che nasciamo e viviamo immersi in un enorme sistema basato sul debito (pubblico e privato) e sul gioco d’azzardo (la borsa), è sufficiente un minimo di informazione per capire come la finanza controlli cittadini e istituzioni. Ci vuole tanto per rendersene conto? E una volta che lo si è capito, perché non si può manifestare la propria contrarietà?
Altri filmati sul web fanno vedere impiegati e manager di Wall Street che brindano festosi da un balcone, guardando sfilare i manifestanti come se fossero scimmiette esotiche o come avrebbero fatto i patrizi romani di fronte alle truppe ridotte in schiavitù di qualche remota provincia orientale dell’impero.


A queste persone (peraltro ex colleghe di molti manager caduti in disgrazia: i nuovi poveri americani falcidiati dalla crisi degli ultimi anni), più che dare una possibilità alla pace, consiglierei di dare una possibilità a se stessi.

lunedì 21 novembre 2011

L'Alberoni del rock

Su segnalazione di un amico ho appena letto l’articolo di prima pagina che Francesco Alberoni ha scritto sul Corriere della Sera in data 01 agosto 2011. Fin dal titolo Il rock, la trasgressione e la stagione delle droghe il sociologo stabilisce una relazione inappellabile di causa-effetto tra musica rock e diffusione delle droghe. Godiamoci la profondità del trattato:

“Tutta la musica italiana, anche negli anni Sessanta, da Modugno a Endrigo a Mina a Battisti, esprime i sentimenti abituali, l’amore. Il rock no. È americano, nasce dall’espansione di sé, dal superamento delle emozioni normali. È espressione di esperienze parossistiche possibili solo con la droga… Tutto è nato negli anni Sessanta negli Stati Uniti e in Inghilterra con una rivoluzione dei valori, del costume, della musica e la contemporanea diffusione dell’Lsd, dell’eroina, della marijuana, della cocaina. Da allora l’uso delle droghe ha continuato a crescere. Oggi ha cambiato le relazioni tra i sessi e non solo nelle discoteche e nei droga party. E modifica le relazioni sociali perché numerosi professionisti che usano quotidianamente cocaina sono diventati emotivamente indifferenti e mostrano una esagerata sicurezza”.

Rispondiamo con ordine:
1)      Il rock non è nato negli anni  Sessanta, ma attorno al 1954 dalle parti di Memphis, Tennessee e vive un breve quinquennio di fulgore assoluto grazie ad artisti come Elvis Presley, Chuck Berry, Little Richard, Jerry Lee Lewis, Bo Diddley, Carl Perkins, Buddy Holly.
2)      Il rock è stato senza dubbio un fenomeno di business corrispondente all’individuazione di un nuovo target di mercato – gli adolescenti americani – ma nello stimolare “l’espansione di sé” e “il superamento delle emozioni normali” non ha fatto altro che riconnettere la musica popolare alla natura più profonda e mitica della funzione artistica (si pensi a Nietzsche e ai suoi studi giovanili sul dionisismo e sul rapporto musica-tragedia) e, se vogliamo essere radicali, possiamo arrivare a dire che il rock non ha fatto altro che rendere mainstream temi e modi già ampiamente diffusi e condivisi nella cultura afro-americana (basta leggere i testi di Robert Johnson per rendersi conto che l’hard rock dei Led Zeppelin non ha inventato nulla).
3)      Negli anni Sessanta il rock modifica la sua destinazione e da fenomeno di evasione diventa veicolo di proposte sociali (da Bob Dylan a Woodstock), dando voce, immagine e significato a un modo di intendere la vita pericolosamente distante dalla celebrazione del sogno americano e per questo inviso ai poteri forti (ben tutelati dalla C.I.A.)
4)      Le droghe erano già ampiamente diffuse nei decenni precedenti in altri ambiti musicali come il rhythm & blues (Ray Charles), il jazz (Charlie Parker), il country (Hank Williams).
5)      La musica europea continentale degli anni Sessanta era penosamente ridicola e passatista rispetto alla  frontiera anglo-americana e in ogni caso c’è modo e modo di celebrare l’amore: non si può certo paragonare l’amore di Luigi Tenco e Jacques Brel a quello di Edoardo Vianello e Rocco Granata.
6)      Le personalità musicali distrutte dalla droga erano in gran parte già minate fin dall’infanzia da situazioni famigliari disperate: così come il temperamento artistico può essere stato favorito dalla sperimentazione di un disagio profondo, non si può escludere che la droga sia stata la conseguenza / risposta errata alla spersonalizzazione provocata dall’incapacità di gestire in solitudine un successo totalizzante e inaspettato (come spiega Ivano Fossati nel recente testo biografico Tutto questo futuro, l’alianazione da rockstar è un fenomeno tutto anglo-americano).
7)      I professionisti “emotivamente indifferenti” e “che mostrano un’eccessiva sicurezza” esistono in tutte le aziende orientate pancia a terra al profitto e il loro potere è direttamente proporzionale allo spadroneggiare di un’etica inversa (si ascolti Il rubacuori dei Tiromancino e La guerra dell’acqua di Ivano Fossati): se proprio bisogna istituzionalizzare un colpevole lascerei stare sia la musica rock che le droghe e metterei sotto accusa la disinvoltura con cui le business school delineano carriere nel mondo della finanza ed evitano ogni abbozzo alla moralità o più semplicemente al pensiero sociale.

Credo insomma che il professor Alberoni non ne esca benissimo e che anzi induca la fastidiosa sensazione che gli intellettuali (soprattutto i tuttologi) siano abbastanza superflui se spiegano così male i tempi in cui viviamo.  Qui poi mi sembra si voglia demonizzare quello che non si comprende e quindi si teme di non poter controllare, che poi è la libertà di pensiero e di parola, che quando è cantata suona meglio e arriva prima.


giovedì 3 novembre 2011

Steve Jobs e i Beatles

Nel 2003, durante un’intervista a 60 Minutes, Steve Jobs vaga alla ricerca di una metafora adatta a descrivere la sua visione del lavoro fino ad imbattersi nei suoi idoli musicali: “Il mio modello di business sono i Beatles. Erano 4 ragazzi con molto talento che tenevano sotto controllo le loro tendenze negative, si bilanciavano a vicenda e le loro canzoni erano grandi, il totale era più della somma delle parti. Così è come io vedo il business: le grandi cose non sono mai state fatte da un uomo solo, ma da un team di persone. Abbiamo fatto così sia in Pixar che alla Apple. Quando erano insieme, i Beatles hanno fatto un lavoro veramente innovativo. Quando poi si sono separati hanno fatto belle cose individualmente, ma non hanno mai ottenuto gli stessi risultati di quando erano insieme. Io vedo il business allo stesso modo: è realmente sempre un lavoro di squadra”.
Il riferimento ai Beatles si rafforza nella monumentale biografia che Walter Isaacson ha dedicato a Jobs (Mondadori, 2011). Steve Jobs racconta di amare in modo particolare una serie di registrazioni pirata in cui è possibile ragionare sul metodo di lavoro dei Beatles: ascoltando versioni differenti di Strawberry Fields Forever, un brano del 1967, Jobs osserva come i Beatles correggano di prova in prova la canzone fino a restituirne una struttura complessa in cui la mania di perfezionismo non è mai inferiore alla carica creativa. Jobs dichiara che alla Apple si lavora in modo simile: si inizia con una versione del prodotto che via via viene rifinita al punto che partendo dal risultato finale si stenterebbe a ricostruire il processo che lo ha generato.
Nel suo iPod, scrive Isaacson, si trovano canzoni che coprono l’intero periodo artistico dei sodali inglesi, ma curiosamente non sono presenti canzoni tratte dai repertori delle rispettive strade solistiche intraprese negli anni Settanta. E a quanto pare nemmeno di John Lennon, personaggio indiscutibilmente affine a Jobs, non solo per gli occhialini tondi, ma per la passione radicale e iconoclasta con la quale ha deciso di interpretare la vita.
Forse la spiegazione sta nella forza del modello d’origine: scrivere una bella canzone per i Beatles non era un traguardo, ma un punto di partenza. Il lavoro di squadra in sala prove consentiva una resa sonora unica, in grado di capitalizzare melodia e sperimentazione, coniugando il gusto popolare per il motivo arioso con le più ardite tecniche di registrazione  multitraccia (è noto che uno dei motivi che spinsero i Beatles a non suonare più dal vivo da Revolver in poi, 1966, fu proprio l’impossibilità di riprodurre sul palco in modo soddisfacente quanto eseguito in studio).
Proprio il fascino esercitato su Jobs dai ripetuti moduli di perfezionamento della canzone rende l’idea della filosofia che l’ha reso grande: se è vero che la canzone è il prodotto, è altrettanto vero che l’architrave armonico che la sostiene e il layout sonoro che la riveste sono la struttura e il design che fanno dell’innovazione un elemento di piacere e di consumo.
“Compito dell’arte – dice Bono degli U2 – è scacciare la bruttezza” e allora tout se tient: con la Apple l’estetica si affaccia nel mare quantico della microtecnologia e la bellezza si trasforma in pane quotidiano.

John Lennon e Steve Jobs: chi s'assomiglia...