Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

mercoledì 19 dicembre 2012

Taxman - governo Monti

Nel 1966 i Beatles pubblicano Revolver, un album importante per la storia del gruppo e più in generale del rock: si tratta infatti del primo album sperimentale del quartetto e marca un volontario distacco dal cliché che vuole i Beatles fabbricatori a cottimo di successi pop d’alta classifica. Per aprire l’album viene scelta una canzone di George Harrison dal titolo molto attuale: Taxman. Il testo spiega che abbiamo tutti un datore di lavoro, infinitamente più esoso di un socio in affari, che si chiama Esattore (oggi diremmo Agenzia delle Entrate):

Se guidi una macchina, tasserò la strada,
Se provi a sederti, tasserò il tuo posto,
Se hai troppo freddo, tasserò il caldo,
Se passeggi, tasserò il tuo piede.
Esattore.
Perché sono l’Esattore,
Sì, sono l’Esattore.


Ben aldilà delle tentazioni populiste fornite dall’argomento, è più che evidente che un testo del genere meriti di essere riconsiderato nel 2012, e soprattutto in Italia. Il governo Monti ha ratificato l’aumento dell’IVA, abbassato le pensioni, aumentato l’IRPEF (non si raccontino balle, la mia busta paga parla chiaro: nonostante gli scatti contrattuali mi ritrovo un netto inferiore al 2011), applicato quell’abominio di nome IMU (in pratica una rata in più per chi paga un mutuo su un bene che, come è noto, appartiene a qualche banca), cioè ha chiesto sacrifici senza dare garanzie né palesare evidenze di ripresa per il futuro. Anzi, ha messo in difficoltà le amministrazioni locali, costrette ad alzare aliquote varie e a prendersi superficialmente colpe da attribuire ad altri.

l'attualissimo George Harrison
E come se non bastasse è in arrivo il redditest, uno strumento che da un lato terrorizzerà le persone oneste, dall’altro aiuterà gli evasori a evadere in modo più intelligente. Sì, perché alla fine il governo non ha progettato nulla, si è solo attivato d’imperio per riscuotere denaro in modo forzoso sotto la pressione compiacente della UE, affamata di denaro per sostenere debiti pubblici finanziati, tanto per cambiare, da qualche istituto di credito internazionale. E ci si guardi bene dal commettere ritardo rispetto alle caselle esattoriali: sono infatti in agguato interessi da far invidia a benemerite e radicate istituzioni come la mafia (questo discorso vale anche per quelle aziende che si ritrovano senza soldi per aver fatto credito alle pubbliche amministrazioni e agli enti parastatali). E in più il governo non ha dato ai contribuenti istruiti, per parlare il linguaggio del management, alcun motivo per giustificare uno sforzo e creare engagement (coinvolgimento).
Per farla breve: la politica in Italia non esiste più, esiste solo l’economia. Tutti i giornalisti che non lo dicono chiaro sono dei farabutti e tutte i cittadini che pensano di andare a votare nel 2013 in base a convinzioni culturali o a tradizioni famigliari sono dei fessi. Imparate a difendervi perché siamo in guerra.
Buon Natale.

giovedì 8 novembre 2012

Springsteen & Obama - Una chitarra per due


Ladies and Gentlemen, ecco a voi un bell’esemplare di Takamine EF350MCS, una chitarra elettroacustica di produzione giapponese. La combinazione dei suoi legni, abete e acero, le permette di esibire un timbro chiaro e squillante, in grado di bucare le frequenze di un’orchestra d’archi e di emergere dal mixer in ogni situazione…
Ehi, un momento, ma cosa sta succedendo appena dietro? La chitarra non è appesa a un collo qualunque. Protegge infatti la “voce” del rock per antonomasia, quella di Bruce Springsteen, che a sua volta sta abbracciando fraternamente il riconfermato presidente degli Stati Uniti, Barack Obama (la foto in realtà è stata scattata pochi giorni prima della rielezione). Qui importa il fatto che siamo di fronte a due talenti puri della comunicazione, nel senso che è evidente per chiunque (anche ai loro detrattori) che questi signori sanno farsi ascoltare senza alzare i toni, accompagnando i contenuti con elementi paraverbali e non verbali assolutamente coerenti. E fin qui, dal punto di vista di chi osserva i processi comunicazionali, siamo nel regno dell’ovvio, nel senso che Springsteen e Obama non sono i soli a comportarsi così, ma probabilmente oggi sono i più bravi in circolazione.
E qui sta il punto: perché?
A mio parere Springsteen e Obama  sono utili per demolire tutte quelle fantastiche prospettive di formazione mordi-e-fuggi che fanno leva sul ricalco e sullo studio pseudoscientifico del comportamento. Innanzitutto perché nella loro comunicazione il puro messaggio è pregnante, archetipale (etica laica della compassione, accoglienza, speranza, guardare avanti, We Shall Overcome) e tutt’altro che secondario, in secondo luogo perché le canzoni dell’uno e i discorsi dell’altro sono costruiti secondo le più rigorose leggi del rispettivo mestiere (leggi che si imparano con un’assidua pratica e al prezzo di tante ingenuità e passi falsi). Questi due elementi, messaggio e costruzione del messaggio, sorretti dal carisma e dal physique du rôle, conquistano l’eccellenza in termini di estetica e di efficacia.


In definitiva, non si diventa bravi comunicatori solo studiando comunicazione e men che meno facendolo in quegli ambienti dove ai contenuti si assegna un’importanza marginale.
Ecco i miei consigli.
Per prima cosa bisogna imparare bene il proprio mestiere, cioè bisogna essere competenti in quello che si fa, senza pensare di affidare alla cosmesi dell’affabulazione il vuoto pneumatico dell’espressione.
Poi bisogna chiedersi quale valore aggiunto una buona comunicazione può portare alla propria mission, vale a dire cogliere il discrimine tra comunicazione intesa come parte integrante e necessaria del lavoro e comunicazione intesa come self marketing.
Infine bisogna imparare a fare i conti col sano piacere misto al senso di sfida che si vive davanti a un pubblico che riceve in presa diretta il nostro messaggio.
Questo terzo aspetto, decisamente psicologico, è particolarmente delicato ed è spesso la cartina di tornasole di un evento di comunicazione perché implica un costante e forte senso di autoanalisi e autocensura onde evitare che un’occasione propizia per lasciare il segno trascenda in un’esibizione di dissociazione narcisistica. Bisogna inoltre stare attenti a non scambiare una vittoria in un contraddittorio o una performance particolarmente applaudita per un successo assoluto: la comunicazione è realmente vincente solo quando protrae i suoi effetti sul lungo periodo. In tutti gli altri casi si tratta solo di manipolazione.

giovedì 25 ottobre 2012

Ai confini del plagio

Come abbiamo visto in passato, la storia della musica rock offre la possibilità di riflettere sul concetto di innovazione secondo prospettive originali. Una di queste riguarda le influenze che alcune canzoni hanno avuto su altre. Se nel caso del plagio musicale è ovvio che non si possa parlare di innovazione quanto piuttosto di mistificazione, ci sono altre situazioni in cui i riferimenti sono evidenti, ma consentono al nuovo prodotto si mantenere una sua autonomia e una sua dignità.
Prendiamo The Needdle and the Spoon dei Lynyrd Skynyrd (1974) e Submission dei Sex Pistols (1977): le linee melodiche sono sostenute da un riff di chitarre elettriche che rimanda senza il minimo dubbio a Hello, I Love You dei Doors (1968), il quale a sua volta è però ricalcato su All Day and All of the Night dei Kinks (1964). Perché la questione del plagio non è mai stata sollevata? Una questione di gentlemen’s agreement? No, più probabilmente perché si tratta del riutilizzo di cellule tematiche evidentemente vincenti in quattro sottogeneri differenti – punk rock, southern rock, rock psichedelico, british rock – a cui si sovrappongono melodie differenti rivolte a audience differenti in contesti anche geografici differenti.

The Kinks


Un altro caso prende le mosse da Helpless, scritta da Neil Young e pubblicata da Crosby, Stills, Nash & Young in Déjà Vu (1970). Masticata, rimasticata, digerita e metabolizzata da Bob Dylan, diventa Knockin’ on Heaven’s Door (1973). Qui siamo di fronte a melodie veramente simili edificate su progressioni armoniche simili. Più che plagi però finiscono col diventare citazioni, tributi, gesti di stima. E ciò è dovuto alla qualità degli artisti e alla sincerità degli stessi nell’attingere a canoni musicali universalizzanti. Non è un caso se, molti anni dopo, la canzone di Dylan sarà riproposta in una famosa cover dai Guns N’Roses e quella di Neil Young da Patti Smith.
A metà tra i due modelli presentati sta un terzo caso. Anche qui si parte da una composizione di Neil Young: Mr. Soul, un folk rock venato di rhythm & blues, scritto all’epoca della sua militanza nei Buffalo Springfield (1967). La canzone, pur avendo un canto completamente originale, è sostenuta da un riff che rimanda chiaramente a (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones (1965). Della melodia invece si approprierà il nostro Lucio Battisti, che la riprenderà nota per nota rallentandone il ritmo nell’incipit de I giardini di marzo (1972). Anche qui le accuse di plagio non scattano perché i target delle tre canzoni sono differenti e le stesse risultano evidentemente rimaneggiate a sufficienza.

Lucio Battisti

Quale contributo al concetto di innovazione può dare questa esibizione di dati? Che non è l’innovazione pura e semplice (cioè in questi casi lo spunto musicale) a fare la differenza, ma la capacità dell’artigiano di trasformare l’idea di base in prodotto con uno specifico appeal di vendita. È infatti questo aspetto che fa breccia nel cliente e che lui stesso tende a identificare con qualcosa di nuovo e anche emotivamente convincente. Ed è questa considerazione che deve animare le riflessioni dei dipartimenti di ricerca & sviluppo delle grandi aziende. In ciò è stato maestro Steve Jobs, non a caso grande appassionato di musica rock, che per il suo business ha saputo mutuare dai musicisti l’approccio alla composizione e all’arrangiamento, con un occhio sempre più che attento alle esigenze di mercato. Riscoprire e rileggere il patrimonio rock anche alla luce di questo illustre esempio può aiutare a percorrere nuove strade in cui agire con profitto.

giovedì 27 settembre 2012

Jack of All Trades - Bruce Springsteen

Quando ha scritto Jack of All Trades, Bruce Springsteen aveva in testa la voce e la musica di Elvis Presley e di Johnny Cash, quanto al testo però non ha avuto bisogno di riferimenti storici. Siamo infatti di fronte a una canzone d’amore che racconta del presente. Un uomo parla alla sua donna in modo franco e diretto: non ha orizzonti di gloria da illustrarle né terre promesse in cui condurla. Può darsi che il futuro sarà migliore, ma a guardarsi intorno non sembra sia il caso di fare grandi progetti:

Il banchiere diventa sempre più grasso, il lavoratore diventa sempre più magro
È tutto già accaduto in passato e accadrà di nuovo
Accadrà di nuovo, ci scommetteranno la tua vita.

Il protagonista non è un seduttore né quello che si direbbe un “buon partito”: è solo un uomo comune che non si vergogna di essere tale e pensa che dare amore significhi offrire se stessi con tutta la semplicità di cui si è capaci:

Taglierò il tuo prato, pulirò la tua grondaia dalle foglie
Riparerò il tuo tetto per tenere fuori la pioggia
Prenderò il lavoro che Dio mi dà
Sono un tuttofare, tesoro, staremo bene.


Ecco il punto: è un uomo per tutti i mestieri, un tuttofare, un factotum. Secondo i canoni dell’iperspecialismo contemporaneo è una figura ingenua e tapina, che non ha saputo prendere una decisione definitiva sul suo percorso professionale.
Proviamo però a modificare il punto di vista: che fine stanno facendo oggi tutti quelli che si sono fatti dire dal sistema in cosa era più prestigioso laurearsi, in quale settore era più opportuno impiegarsi? A qualcuno (e quasi mai per merito) è andata bene, ma tanti si sentono ingannati. Giovani avvocati, architetti, psicologi: quanti di loro hanno realizzato le aspettative di reddito per le quali si sono impegnati nel regolare corso scolastico? Quelli che hanno fatto i master in Risorse Umane poi, come la mettono con l’ordine perentorio di tagliare il personale che sta rimbalzando da un’azienda all’altra più rapido e leggero di una pallina da ping pong?
E per favore lasciamo stare la deontologia professionale: viviamo nell’era dell’autoinganno, dove per avere soldi e potere si deve partecipare attivamente al grande gioco della menzogna e del cinismo (pubblico o privato, non fa differenza). Ma se a 30 anni hai la scusa che ti devi fare le ossa e un paio di cazzate te le perdonano tutti, a 40 sei una merda bella e buona.
E allora il tuttofare di Springsteen ci svela il suo significato: è un uomo libero, che è cresciuto libero e resterà libero, perché evidenzia che la sua scelta di vivere in seconda fila non corrisponde a una rinuncia alle responsabilità. Anzi, nella sua schiettezza risulta essere incredibilmente pratico e sicuro dei suoi valori:

Usi ciò che hai e impari ad arrangiarti
Prendi ciò che è vecchio e lo rendi nuovo
Se avessi con me una pistola, troverei i bastardi e gli sparerei a vista
Sono un tuttofare, staremo bene.

E il messaggio arriva in tutta la sua luce:

Soffia un uragano, porta con sé una pioggia battente.
Quando il cielo blu si fa largo  nel temporale
E sembra che il mondo debba cambiare,
Inizieremo a prenderci cura l’uno dell’altro, come Gesù ci ha detto di fare
Sono un tuttofare, staremo bene.

Tra il cortigiano e il tuttofare, io scelgo il secondo.

martedì 21 agosto 2012

Free Pussy Riot!!!

Mentre scrivo, tre ragazze – età media 25 anni – si trovano in prigione per aver manifestato in musica il proprio dissenso all’inciucio Chiesa / Governo di uno dei paesi del BRIC, le economie emergenti.
Questo paese, dove il capitalismo negli ultimi venti anni ha mostrato il peggio di sé, partorendo miliardari impresentabili e improvvisati (sarà un caso che non esistono biografie imprenditoriali provenienti da quei luoghi?), dove il divario economico tra maggioranza silenziosa e minoranza strafottente si accoppia a un divario economico mostruoso, dove il contante fluisce e rifluisce con grande e inspiegabile leggerezza, questo paese, dicevo, dimostra forse meglio di qualunque altro come l’istituzione di un regime di presunta democrazia sia la carta vincente per lasciar agire sottobanco rapporti di forza raccapriccianti.
Il caso in questione è più che esemplare: tre persone vestite in modo variopinto (e non volgare) si recano in una chiesa ortodossa e intonano un brano che mescola i vespri di Rachmaninoff col punk, a sottolineare un testo che protesta contro il sostegno della chiesa al governo in carica. Il patriarca religioso invoca una pena esemplare per il sacrilegio e la magistratura lo accontenta: 2 anni filati di galera per direttissima alle tre sciagurate.


Per ora le reazioni del mondo Occidentale si sono rivelate tiepide. Significativa (e per certi versi per lei riabilitante) la protesta di Madonna che, trovandosi in quel paese per un tour, ha spiegato che un vero artista non può non occuparsi anche di politica (la quale, esattamente come l’arte, permea la vita) e ha invocato la libertà per le ragazze e la realizzazione di un mondo fondato sulla pace e la tolleranza.
“Le solite utopie da rockstar” diranno i disillusi di tutto il mondo.
A me invece piace pensare che gli utopisti non siamo noi, ma tutti quelli che sono prepotentemente convinti che sia possibile imbrigliare e imbrogliare l’intelligenza, il diritto di replica, la possibilità di vivere secondo i propri principi e non obbedendo a quelli di qualcun altro.
Sulle autorità religiose, a parte rilevare ancora una volta come nella storia abbiano brillantemente saputo assolvere la loro funzione di instrumentum regni (garanzia certa di sopravvivenza, ben più tangibile dello Spirito Santo), non ho molto da dire: basta ricordare che 2.000 anni fa i fedeli in Cristo erano chiamati a portare scandalo tra le genti mentre oggi sono i fedeli stessi a scandalizzarsi per bazzecole quali una canzone rock sconclusionata e provocatoria (peraltro né oscena né blasfema).
Mi viene in mente un episodio della storia dei Beatles: nel 1966 John Lennon si lasciò scappare una battuta nella quale affermava che i Beatles erano più famosi di Gesù Cristo. Non era neanche una sfida, era una semplice battuta, eppure le frange integraliste degli Stati Uniti (tra cui i noti intellettuali del Ku Klux Klan…) si mobilitarono al volo per bandire una crociata contro i Beatles, bruciando dischi, oggetti di merchandising, boicottando le vendite e costringendoli a eseguire i concerti sotto scorta armata.


Coi Beatles le cose si fermarono lì, qui invece 46 anni dopo si arriva a incarcerare delle giovani madri di famiglia.
La sentenza è a dir poco assurda e sproporzionata ai fatti commessi e sono convinto che sotto la pressione dell’opinione pubblica internazionale (che prenderà coraggio e aumenterà) sarà ridimensionata a breve. In ogni caso per ora a queste ragazze va il merito di aver dimostrato che attraverso il mezzo espressivo del rock si può contribuire a tener deste le coscienze e il mio augurio è che la conquista della loro sperata e giusta libertà  porti fiducia a tutti coloro che nel mondo protestano contro il pensiero unico, l’invadenza del potere e l’intolleranza dei parvenues. Stay hard, girls!

mercoledì 1 agosto 2012

Thrasher - La trebbiatrice di Neil Young

Nel 1979 Neil Young pubblica Rust Never Sleeps, uno dei suoi album più famosi in cui alterna, in piena fedeltà al bipolarismo artistico che lo contraddistingue, brani acustici e rock virulenti. Tra i primi si segnala Thrasher (Trebbiatrice), ballata dall’incedere dylaniano, eseguita con Taylor 12 corde e armonica a bocca.

Neil Young nel 1979
La trebbiatrice sta a Neil Young come la livella sta a Totò: è la resa dei conti. Alla quale, sostiene il cantautore canadese, bisogna arrivare preparati. La virtù che viene indicata come essenziale è la coerenza, esperita attraverso un percorso di ricerca, messa in discussione e solitudine. Non esiste un punto d’arrivo, ma una continua rifocalizzazione degli obiettivi in funzione dei traguardi raggiunti. Una corsa spontanea verso il miglioramento e un’accettazione critica del cambiamento. Critica perché il cambiamento presuppone coraggio, responsabilità, scelte difficili, rottura di legami, ridefinizione dei ruoli, passi falsi, rimpianti. A cui si aggiunge l’amarezza di constatare la scelta di tanti, partiti con noi e poi rimasti a coltivare campi insteriliti:

Dove l'aquila sale planando nell'aria c'è un antico fiume che si insinua
Nell'eterna gola dei cambiamenti, dove l'insonnia attende.
Ho cercato i miei compagni perduti in canyon di cristallo
Quando la vuota lama della scienza ha sbarrato le porte del paradiso

Lì ho capito di averne avuto abbastanza, ho prosciugato la carta di credito per la benzina
Diretto dove l'asfalto diventa sabbia
Con un biglietto di sola andata per la terra della verità e la valigia in mano
Come ho perso i miei amici ancora non lo capisco

Avevano la miglior scelta, sono stati avvelenati dalla protezione
Non c'era niente di cui avevano bisogno, nient'altro da trovare
Si sono persi in formazioni rocciose o diventando mutazioni di panchine del parco
Sui marciapiedi e nelle stazioni stavano aspettando, aspettando

Quindi mi sono stancato e li ho lasciai lì, erano solo un peso morto per me
Meglio essere in strada senza quel carico…

Un messaggio potente per i tempi attuali. Chi non si rinnova soccombe, chi non evolve si involve, chi si ferma regredisce. E difatti Neil Young, alla tenera età di 67 anni, è ancora in piena attività artistica e sforna dischi con il ritmo di uno all’anno. La maggior parte dei suoi sodali dei bei tempi di Woodstock invece si trova relegata in un ambito revivalistico e di secondo piano (le "formazioni rocciose" del testo alludono ai gruppi rock che ripetono da una vita i soliti cliché). Perché loro si sono adagiati sui risultati, scambiando la partenza per l’arrivo:

Il motel dei compagni perduti attende con la piscina riscaldata e il bar
Ma io non mi ci fermerò, ho già il mio filare da zappare
Solo un altro solco nel campo del tempo
Quando la trebbiatrice arriverà io sarò ancora nel sole come i dinosauri nei santuari
Ma saprò che è arrivato il tempo di dare ciò che è mio.

I tempi cambiano e noi cambiamo con loro, questo è scontato. Ma, dice Neil Young, un potere ce l’abbiamo tutti: quello di scegliere come cambiare.

venerdì 22 giugno 2012

You are fucking die hard!!!

“Siete fottutamente duri a morire!”. Sono le parole  con cui Bruce Springsteen ha apostrofato i 43.000 spettatori dell’Artemio Franchi di Firenze domenica 10 giugno 2012, più o meno alle 23,30 e appena prima di introdurre le ultime due canzoni del suo concerto: Twist and Shout e Who’ll Stop the Rain. Sì, perché quella sera ha iniziato a piovere alle 20,35 (appena conclusasi Badlands, la canzone che ha aperto lo show) e ha smesso alle 00,15: giusto per prendere l’acqua fino all’albergo.  Un concerto speciale, non solo perché, dicono i fiorentini, di solito quando piove non ne viene giù così tanta, ma perché è come se lo show fosse durato un intero weekend. Di fatto, molti fan sono arrivati venerdì (non pochi di loro reduci dal concerto di Milano) e non hanno perso l'occasione per colorare la città di magliette, tatuaggi, cori inneggianti al più grande comunicatore vivente. Perché il popolo di Springsteen è particolare: non ama solo il cantante, ama l’uomo. E c’è un motivo: è l’unico personaggio pubblico in grado di spiegarti come sia possibile trovare la gioia in fondo a un secchio pieno di buchi. Con la sua poetica di pneumatici bruciati ti porta dritto nell’inferno della vita, ma ti spiega che non sei solo e che non sei lì per rimanerci.
C’è come un vento che ti arriva dal palco: può essere soffocato come le note stirate di un’armonica o poderoso come un assolo di sax, ma in ogni caso è un vento che ti mette le ali (altro che RedBull!) e ti porta fino alla luce, fino al calore del sole, che brucia per tutti ma scalda solo chi le cerca intensamente. Questo è il messaggio ricorrente dei testi di Springsteen: lottare per uscire dalla mediocrità, e farlo con le proprie forze, senza cercare espedienti, e con l’aiuto di tutti quelli che riconosciamo come fratelli.
Gratitudine, passione, reciprocità: sono le prime parole che mi vengono in mente. Insieme a quella che Kant avrebbe definito la sensazione del “sublime”: un evento di fronte al quale per un attimo ci sentiamo piccoli, ma che subito dopo ci scoppia dentro come un’esplosione di salute e di felicità. E si comincia ad apprezzare tutto, a dare valore agli istanti, a tollerare le differenze e le distanze.
È un tuffo nell’istinto che non ha bisogno di additivi strani, un invito a fare comunità che forse è la missione più alta del rock & roll. E se mentre ascolti Born to Run salti a tempo con gli altri 43.00 tenendo per mano tua moglie in uno stadio illuminato dallo smalto dai sorrisi beati di gente di tutte le nazionalità, beh, hai fatto una cosa che ti rimarrà inpressa per tutta la vita e hai come la sensazione di far parte di un progetto di cui sei anche tu responsabilmente protagonista: darci dentro perché questa società smetta di fare così pena a se stessa e trovi la forza di ripartire dalle cose semplici e vere, che poi è quello che chiamiamo amore. Nel rock non c’è retorica, c’è solo vita.

Paola "fucking die hard" Chiappano

mercoledì 30 maggio 2012

Musicamanetta - showcase

Venerdì 25 maggio sono stato ospite dell’associazione musicale Musicamanetta di Milano (Via dei Carracci, 10) nell’ambito di un ciclo di incontri relativi alla presentazione di libri di saggistica e narrativa. Ho tenuto uno showcase di un’ora e mezza durante il quale ho parlato del mio libro Manager Songbook. Per attualizzare e contestualizzare la presentazione, ho pensato di rileggere i temi del libro attraverso canzoni di Bruce Springsteen: da un lato perché parte del libro parla di lui, dall’altro perché mi sembrava, da fan, un modo carino per presentare il suo “avvento” in quel di Milano (7 giugno, Stadio San Siro). Così, accompagnandomi con una Gibson SJ 200 del 2002, ho introdotto i capitoli del libro suonando alcune canzoni del Boss riarrangiate in versione acustica.
Osservazione della realtà. Stiamo attraversando tempi di precariato e incertezza: The Ghost of Tom Joad, canzone che parla della grande depressione americana degli anni Trenta, ritorna molto attuale.
Potere. Le dinamiche di relazione basate sull’autorità e le tentazioni che colgono chi perde il senso del limite trovano sfogo in Badlands.
Responsabilità. Riflettere sui propri doveri e prendersi cura delle risorse affidate portano alla mente il testo di If I Should Fall Behind.
Trappola organizzativa. Il lavoro può ferire fisicamente e moralmente, divenendo una prigione che instilla sensi di colpa e dipendenza. Canzone scelta: Factory.
Autodisciplina. Preparazione, aggiornamento e umiltà fanno il manager e l’uomo. Canzone: No Surrender.
Fiducia. Credere in se stessi come unica via per superare crisi di significato e ostacoli organizzativi trova rappresentazione in This Hard Land.
Il brano di apertura è invece stato Born in the U.S.A., eseguito secondo la versione del provino originale (tonalità in minore). Scelto come brano simbolo per parlare della generazione degli anni Ottanta nonché canzone di apertura del primo concerto del Boss in Italia (Milano, 21 giugno 1985).
Al termine dello showcase, rinfresco e brindisi.
Grazie allo staff di Musicamanetta e alla loro gentile ospitalità. Invito i lettori a collegarsi al loro sito (http://www.musicamanetta.it/) per consultare i programmi di eventi e i corsi di strumento e voce che regolarmente vi si tengono.

mercoledì 28 marzo 2012

La magica riforma del lavoro

Il bailamme scatenato intorno alla prossima riforma del lavoro ha permesso agli italiani di familiarizzare, seppur in modo confuso, coi termini tecnici del diritto giuslavoristico: apprendistato, articolo 18, assicurazione sociale per l’impiego, giusta causa, discriminazione, ecc.
Le battaglie di principio, le rendite di posizione, il protagonismo politico hanno però condizionato il dibattito mediatico al punto da impedire ai non addetti ai lavori una disamina oggettiva delle posizioni in campo.
Ciò che si può osservare a grandi linee e senza timore di polemica è che agevolare (qualunque siano i paletti definitivi della riforma) la dismissione delle risorse umane dalle aziende non solo non ha nulla a che fare con la creazione di altri posti di lavoro (se posso licenziare per poter assumere, al limite il conto si azzera e in ogni caso non sale), ma si dimostra un ragionamento a tavolino, da biblioteca, incurante di una specifica realtà italiana che, a differenza di altre nazioni europee di cui si vuole imitare il modello, soffre di una grave malattia: l’assenza di meritocrazia.
È prassi comune nelle grandi aziende, una volta uscite dalle fasi di start up e consolidamento, livellare verso il basso le competenze medie delle risorse umane per tenerle in scacco (leggi: precariato esistenziale)  attraverso un meccanismo bipolare che non è quello dell’efficiente / inefficiente e nemmeno quello del produttivo / improduttivo, ma quello del molto più svilente utile / inutile. Ma, attenzione, utile / inutile per chi? Forse per “il bene dell’azienda”? No, e neanche dell’azionista. Più semplicemente: per il manager che sta sopra l’impiegato.
La meritocrazia in Italia si riduce a questo: compiacere il capo. Se si condivide questa lettura si fa presto a capire che, prima di parlare di licenziamenti a raffica di operari cinquantenni (con conseguente ricaduta macroeconomica spaventosa), bisognerebbe parlare del destino di quei manager che hanno stabilito di impiegare i suddetti operai in linee di produzione ronzinanti. Che colpa ne ha Cipputi se il suo stabilimento viene destinato alla produzione di un’automobile talmente brutta e senza appeal di mercato che nessuno comprerà mai?
Ecco, in questo caso la riforma del lavoro non agirebbe sulla causa (cioè la rimozione del manager delegato alla strategia), ma sugli strumenti della causa (gli operai) che hanno avuto la solo colpa di eseguire decisioni altrui. Insomma, il vero responsabile non paga mai, anzi spesso con una mano partecipa alla distribuzione dei dividendi mentre con l’altra schiaccia i bottoni che nel giro di qualche anno manderanno a puttane l’azienda.
Quando si parla di mercato del lavoro, dovrebbe essere chiaro che di casta sentenziante non c’è solo quella dei politici, ma anche quella, più furbescamente defilata, dei manager d’azienda. I quali, diciamolo francamente, hanno come principale e a volte unico obiettivo perpetuare i loro privilegi, alla faccia di azionisti, dipendenti, clienti (e il sistema glielo consente!).
Non si è mai vista una squadra di calcio non performante in cui l’allenatore può cacciare tutti i giocatori “per motivi economici” e rimanere saldo al suo posto sine die, col presidente che mette i soldi e lascia fare. Eppure, è proprio quello che nelle aziende già accade e ancor più facilmente potrebbe accadere.
Siamo seri: prima di riformare il lavoro, si riformino le aziende.


Viviamo in un mondo di specchi deformanti, di giochi di prestigio maldestri, di sorrisi protesici, dove la cosa più vera in cui capita d’imbattersi è la tintura dei capelli di gente con poca vergogna e niente dignità.
Bruce Springsteen non ha usato mezze misure quando nel 2007 in Magic ha scritto:

      Non fidarti di quello che senti
      E ancor meno di quello che vedi

Per concludere così:

      Il sole sta calando sulla strada
      Mentre corpi pendono dagli alberi
      Questo è quello che sarà
      Questo è quello che sarà.

Àscari benpensanti aziendalmente corretti astenersi, grazie.

martedì 28 febbraio 2012

Il blues di Obama

Il 21 febbraio il presidente Barack Obama nel corso delle celebrazioni dedicate alla storia della cultura afroamericana ha avuto la fantastica idea di organizzare alla Casa Bianca un concerto di blues. Una mossa profondamente significativa perché giustificata da parole che centrano correttamente il valore culturale di questa grande manifestazione artistica. Ha detto Obama:
“Il blues ci ricorda che abbiamo superato tempi più duri di quelli attuali e ci insegna che quando ci troviamo di fronte a un bivio non scappiamo mai davanti ai problemi. Li rendiamo nostri, li fronteggiamo, ci facciamo i conti. Su di loro cantiamo e li trasformiamo in arte. E anche se ci confrontiamo con le dure sfide di oggi, possiamo sempre immaginare un futuro migliore. Questa è una musica di umili origini. Affonda le sue radici nella schiavitù e nella segregazione, in una società che raramente trattava i neri d'America con la dignità e il rispetto che meritavano. Era la testimonianza di quei tempi duri. Tantissimi uomini e donne cominciarono a cantarlo. E il blues è andato oltre, ha sfondato ogni confine, andando oltre le zone in cui era nato. È migrato al nord, dal delta del Mississippi a Memphis, sino alla mia città, Chicago.  Il blues ha provocato la nascita del Rock and Roll, del Rhythm and Blues, sino all'Hip Hop. Ha ispirato artisti e pubblico di tutto il mondo. E gli artisti di stasera ci dimostrano che il Blues continua a raccogliere le folle. Perché questa musica parla di qualcosa di universale. Nessuno attraversa la propria vita senza gioia e dolore, trionfi e insuccessi. Il blues parla di tutto questo, a volte con una sola nota e una sola parola".
Parole che sottolineano l’intima connessione tra vita e arte e la funzione catartica che quest’ultima sa svolgere quando la si svincola dalle logiche di mercato. Sì, perché il blues non nasce per farci i soldi, ma come oggettivazione di uno stato d’animo o meglio ancora di una condizione esistenziale che all’epoca delle piantagioni di cotone era quella descritta da Obama. L’intelligenza del presidente sta nell’aver evidenziato una concomitanza tra il disagio della comunità nera di allora e la diffusa sensazione di precariato che oggi accomuna più o meno tutti, dai proletari agli alto borghesi. Non è il peso del portafogli a stabilire chi ha il blues e chi no, ma la capacità di interrogarsi sulla fragilità della condizione umana, a cui nessuno sfugge, nemmeno il politico più importante del mondo. La musica blues scandisce la ricerca del contatto profondo prima con se stessi e poi con l’umanità intera che si riflette nel percorso di vita di ognuno come in gioco di lenti magnificatrici. E il senso comunitario che invoca attraverso le sue poche note dall’intonazione tremolante e dalla modalità sospesa ma non ambigua è forse la ragione della sua universalità. Tre accordi, sempre quelli, snocciolati su dodici battute, sempre quelle, ma con un’infinità di possibili modulazioni e sfumature tali da farci percepire la varietà nella costanza, l’estetica nel dettaglio, la qualità nel particolare. Un messaggio sussurrato con forza che arriva dritto al cuore delle persone sensibili e punta a rompere la scorza di chi finge di non avere un cuore.


Sul palco hanno suonato tra gli altri Mick Jagger, B.B. King, Buddy Guy, Keb’ Mo’, Jeff Beck, Derek Trucks, Susan Tedeschi, Warren Haynes. La jam session finale si è svolta sulle note di Sweet Home Chicago di Robert Johnson, e quando il microfono te lo passa Mick Jagger, anche se hai una carica istituzionale di un certo prestigio, come fai a non cantare?


martedì 24 gennaio 2012

Crisi e mercato del lavoro

Gli appassionati di canzone d’autore all’inizio dell’inverno sono stati scossi da una notizia spiacevole: Ivano Fossati ha annunciato il suo ritiro dalle scene e quello in corso sarà il suo ultimo tour. Ghiotta notizia sotto il profilo della comunicazione, ha permesso la realizzazione di addirittura tre concerti a Milano e due puntate televisive di “Che tempo che fa” con Fabio Fazio.
Con intelligenza Ivano sta regalando ai fan una ragguardevole carrellata di vecchie canzoni, tra noti successi e gustose riscoperte. Tra queste, e non a caso, si segnala La crisi, un brano del 1979 che non lascia margine a sottintesi:

La crisi ci aspetta
giù al portone
studia dove andiamo.
La crisi ci segue
come un granchio
e non ci molla più.
Al supermercato
la cassiera
già da un po' chiede di me.
Io no, io no
no non esco di casa
no fuori c'è la crisi.
/…/
Va tutto bene
più che bene
solo un po' di crisi.
Va tutto bene
solamente non ce la facciamo più.

Canzone più che attuale, declinata a ritmo di country rock e sostenuta dalla Fender Stratocaster di George Terry, già musicista di Eric Clapton dal 1974, La crisi fotografa la quotidianità di un vivere incerto, dove a volte ci si condiziona selezionando ed enfatizzando messaggi negativi nel segno delle profezie che si autoavverano.

Ivano Fossati negli anni Settanta
Questa sorta di timor panico purtroppo attecchisce tignosamente negli ambienti aziendali a tutto vantaggio dei datori di lavoro più “intraprendenti”: ci si sente quasi in colpa a portare a casa uno stipendio e si prova vergogna a lamentare trattamenti non esemplari, ci si convince che certe cose avvengono dappertutto, che è meglio essere certi di stare male qui che rischiare di stare meglio altrove. Risultato: il mercato si blocca, tutti si tengono quel poco che hanno, i progetti ammuffiscono nei cassetti e – dal momento che nessuno fa niente – la crisi non passa.
Mi sento allora di segnalare la storia recente di un amico, tra l’altro fan di Fossati. Ingegnere ambientale per oltre dieci anni presso una municipalizzata (posto sicuro a vita, illicenziabile, qualifica manageriale), è stato da poco assunto da un’azienda privata (pacchetto retributivo migliore, ma situazione sottoposta al rischio d’impresa). Se n’è andato tra lo stupore dei suoi vecchi colleghi che, increduli per la temerarietà del gesto, hanno persino evitato di augurargli buona fortuna.
Perché l’ha fatto?
Per autostima, perché ha capito che la mediocrità di un ambiente gravato dalle raccomandazioni politiche e refrattario ai riconoscimenti meritocratici non è l’unico mare in cui si può nuotare.
Per responsabilità, perché da persona intelligente ha voluto dare un senso ai suoi valori, al suo impegno e ai sacrifici che la generazione precedente ha sostenuto per lui.
Per amore, perché vuole che i suoi figli crescano di fronte all’esempio di una padre che affronta le sfide in modo consapevole e non si lascia blandire dalla grigia cultura dell’espediente piccolo borghese.
Si è messo sul mercato e l’offerta è arrivata proprio in un momento in cui il pessimismo generale avrebbe fatto presupporre il contrario.
La morale di questa storia è che, crisi o non crisi (ma soprattutto in tempo di crisi), è assiomatico che se siete persone valide qualcuno vi sta cercando, e se stanno cercando voi state pur certi che prima o poi è proprio voi che assumeranno, perché in momenti come questo chi vi assumerà si guadagnerà il futuro.
Vi invito quindi a non ascoltare le cassandre di quartiere che provano a frenare il vostro istinto. Liberate il fiuto, siate ostinati e non smettete mai di rappresentarvi qualcosa di più della situazione che state vivendo, magari ascoltando il Fossati maturo, quello della poesia in musica di Lindbergh (1992):

La voglio fare tutta questa strada
fino al punto esatto in cui si spegne.