Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

giovedì 31 ottobre 2013

Lou Reed e il lato selvaggio

A Lou Reed viene ascritto il merito storico di avere precorso il punk con l’esperienza dei Velvet Underground e di aver promosso, qualche anno dopo, il glam rock insieme a David Bowie.
Vorrei però qui ricordarlo non tanto per i meriti strettamente tecnici, quanto per la sua forza evocativa.
Il suo modo di cantare, gli arrangiamenti e soprattutto i testi ci proiettano in un’atmosfera di claustrofobica decadenza, dove la sperimentazione va a braccetto con la disperazione.
Le canzoni di Lou Reed non risparmiano nulla, raccontano immagini di quella realtà che ci piacerebbe relegata ai b-movie e che invece è profondamente nostra. L’abbruttimento dell’alienazione, l’umiliazione della dipendenza, il vizio, la perversione, la delinquenza, la sporcizia, l’odore di piscia ai bordi delle strade, l’equivocità, lo sbandamento. Lou Reed scrive come se si muovesse su un piano psicanalitico e ci offre un viaggio attraverso i suoi demoni, lasciando ad intendere che sono anche i nostri. Con la differenza che lui ha cominciato ad affrontarli da ragazzino, mentre molti di noi sanno solo rimandare. È il poeta del disvelamento, del magma primordiale, dei vicoli urbani, delle notti laide.


Pur tenendosi fuori dal dibattito politico, è stato tra i primi a presentare quel lato degli Stati Uniti che al mondo doveva restare segreto, popolato da un’umanità che ha smesso di fare domande, segnale irreversibile di un progetto molto meno idilliaco e visionario di quanto il sogno americano avrebbe voluto far intendere.
Il minimalismo delle sue strutture armoniche, interpretato da uno sferragliare di chitarre elettriche alla portata di ogni garage band, ben rappresenta quel rigore geometrico con cui lo spirito umano può attraversare certe lande desolate senza fingere di essere da un’altra parte. La vita è qui e la vivo adesso e imparo a non averne paura, anche se il viaggio lo farò da solo.
Come altri illuminati del rock (Eric Clapton, Keith Richards e Joe Strummer su tutti) Lou Reed frequenta un’istituto d’arte e stringe un patto con la sua sensibilità che lo porterà a trasfigurare poeticamente i bassifondi di New York. Ma il suo linguaggio, proprio in quanto poetico, si presta bene a essere metaforizzato e le immagini che crea sono un costante invito al confronto e al superamento del perbenismo. In particolar modo a quella forma di perbenismo che occulta la vera natura dei rapporti di potere e di ciò che di disequilibrato alberga dietro ruoli, biglietti da visita, privilegi e cariche onorifiche.

Fatti un giro nella zona selvaggia

recita il suo slogan più famoso. Un provocatorio invito tracciato per immagini che può essere un modo per fare i conti con quello che realmente ci circonda, far cadere falsi miti, farci cambiare idea su certi progetti di carriera, ma darci libertà di pensiero e azione.

martedì 16 luglio 2013

Springsteen - e Roma diventa New York

Nel post precedente relativo al concerto di Milano 2013 avevo segnalato come il popolo di Bruce avesse avuto un moto di orgoglio nazionalistico esibendo una coreografia incredibile a San Siro laddove, in bianco, rosso e verde, l’arrivo del Boss è stato salutato dalla frase “our love is real”. Appena sotto questa frase, e quindi nel primo anello dello stadio, è comparsa la sigla NYCS. per lì non era chiaro e forse era poco importante di cosa si trattasse. Ebbene, pochi giorni fa all’ippodromo Le Capannelle di Roma, il mistero è stato svelato.
Per la prima volta fuori da New York, Springsteen ha infatti eseguito una canzone del suo secondo album (pubblicato 40 anni fa), New York City Serenade. Una canzone lontana dal rock & roll al quale il nostro ci ha abituati, ricca invece di suggestioni nere (dal soul al jazz) accarezzate da percussioni latine, testimonianza di un giovane artista alla ricerca del suo stile, creativamente esuberante e senza la preoccupazione della sintesi.


i violini italiani accompagnano Bruce Springsteen

Si è insomma verificato il caso in cui viene mantenuta una promessa che nessuno ha fatto. Semplicemente sono state soddisfatte aspettative di reciproca generosità che fanno pensare alla possibilità di realizzare una società basata sull’ascolto e la comprensione. D’accordo, stiamo parlando di un clima emotivo tutto speciale, ma la musica, almeno quella di Springsteen (non dimentichiamo che da Padova a Milano si era spostato su di un treno di linea…), non è solo una manifestazione artistica: trasfigura la vita reale per redimerla, condizionarla, orientarla. E in questo regalo pensato a Milano e fatto a Roma (giusto il tempo di reclutare una sezione d’archi della capitale con tanto di direttore d’orchestra) ci sta anche il senso più pulito di come interpretare un mondo in cui le distanze geografiche si sono azzerate. Springsteen ancora una volta ci ricorda che il rock è speranza. Lui stesso, che in Open All Night cantava:

Rock’n’Roll, liberami dal nulla

ferma il tempo con una esecuzione di cui si parlerà per anni, dove una storia di ragazzi di strada si dipana nella notte metropolitana (Roma come New York), dove il peccato è dolce, il rischio è piacere, il presente è tutto e il senso delle cose riposa solo nel farle (beata gioventù). Ma New York City Serenade contiene anche un monito che vale per la vita:

Questo non è il momento di essere carini:
è una passeggiata per cani pazzi,
quindi cammina a testa alta
o non camminare affatto.

Per capire di cosa si tratta vi invito a non perdere tempo e collegarvi su Youtube a questo indirizzo:


e non sottovalutate il fatto che alla fine della canzone il Boss che tutti vorremmo ha stretto la mano a tutti i violinisti.

martedì 4 giugno 2013

Springsteen - il Boss di San Siro

Avete presente la massima evangelica “beati gli ultimi perché un giorno saranno i primi”? Ecco, Bruce Springsteen, il Papa del rock, attualmente è forse l’uomo più in grado di renderla credibile.
Lui, nato tra gli ultimi, è diventato primo, e da primo gira il mondo parlando agli ultimi di speranza, sogno, fatica, attesa. Lui, che ce l’ha fatta, non vede l’ora di strapparsi le corde vocali per darci la sua lezione, che non è una scorciatoia, ma una cavalcata lungo i sentieri polverosi del rock.
E così anche quest’anno siamo andati alla sua liturgia nel tempio di San Siro a Milano (è il quinto concerto in questo stadio), dove ci ha accolto con una potenza inaudita (i primi cinque brani, tiratissimi, nella scaletta di un comune mortale sarebbero stati dei bis), prima di proiettarci in una dimensione più cruda e realistica con una canzone, Death to My Hometown, che più esplicita e attuale non si può:

Manda i capitalisti senza scrupoli dritti all’inferno,
i ladri avidi che sono arrivati
e hanno mangiato la carne di tutto ciò che hanno trovato
e i cui crimini sono ancora rimasti impuniti.
Quelli che ora percorrono la strada da uomini liberi
hanno portato la morte nella nostra città.

Un’invettiva brutale contro la finanza selvaggia, ma che in Italia può anche essere letta in una dimensione politica. Perché di grandi aziende di proprietà italiana ne restano sempre meno e i padroni stranieri hanno molto poco interesse a tutelare i posti di lavoro di persone con le quali non condividono alcun tipo di legame.
La riforma Fornero – dopo quasi un anno possiamo abbozzare un bilancio –  quali effetti sembra aver innescato?
Ha aumentato la flessibilità in entrata, ma ha anche alimentato il precariato: coi contratti a termine cosiddetti acausali le aziende sono sempre legittimate a disfarsi della zavorra umana, mentre il nuovo apprendistato è ancorato a una burocrazia talmente complessa da scoraggiarne il ricorso anche agli HR manager più filantropici.
In compenso il già mitico licenziamento “per motivi economici” si è rapidamente imposto come sentina per la mala gestione: da una parte i giudici non hanno tempo di entrare nel merito e quindi premono per conciliare le posizioni dietro incentivo (col dipendente “accontentato” che resta a casa), dall’altra le aziende utilizzano i licenziamenti per compensare i mancati guadagni previsti.
Risultato: una corsa sempre più frenetica alla dissoluzione del sistema che sul lungo periodo avrà solo perdenti.
Ma, tornando al nostro Papa del rock, mi piace sottolineare come ieri sera, con grande sorpresa dell’artista stesso, sia stato accolto da una spettacolare coreografia tricolore che dal terzo anello digradava nel prato per arrivare fino al palco.


Ecco come ci hanno ridotti: deve venire un americano con madre di origine italiana a farci sentire orgogliosi della nostra terra, a farcela amare e benedire e a ricordarci di avere una bandiera da rispettare e esibire con orgoglio. Sì, perché qui da noi i profeti sono finiti da tempo, sostituiti da corvi travestiti da cornacchie che non hanno nemmeno più il pudore di fingersi colombe.
E allora diamoci dentro e facciamo sapere in giro che esiste anche un altro tipo di italiano, quello che non scappa di fronte alle responsabilità, che paga i suoi conti fino all’ultima goccia di sudore e che “ultimo” non è anche se c’è chi fa di tutto per ferirlo nella dignità. Perché in un’Italia normale, che tale evidentemente non è, non si dovrebbe ringraziare di avere un lavoro, ma è il datore di lavoro che dovrebbe ringraziare per aver trovato lavoratori onesti.
Se proprio ci dobbiamo sforzare per trovare un buon motivo per chi ieri sera è rimasto a casa, potrebbe essere questo: ve li immaginate quei 65.000 spettatori tapini, dopo aver celebrato il rito laico della comunità del rock in marcia verso un futuro migliore, guidata da un uomo che chiamano  il BOSS, andare in ufficio il mattino dopo e riprendere la vita di sempre, cioè non celebrare niente, marciando verso il nulla (o navigando a vista) e obbedendo a qualcuno che vorrebbe farsi chiamare boss, e li guida senza volante?
Mi fa notare il mio amico Marco che i 65.000 non erano spettatori passivi, ma, pur nel rispetto dei ruoli, tutti ben intenzionati a creare sinergia, a portare un contributo. Il messaggio della serata allora diventa quello di non aspettare che qualcuno ci porti al naufragio, ma che ognuno lavori per costruire il proprio timone e tracciare la propria rotta. Perché se leader si nasce, Boss si diventa!

martedì 16 aprile 2013

The Winnemucca Road

Venerdì 12 aprile è cominciata l’avventura di The Winnemucca Road, un duo acustico composto da me e da Federico Rama. Entrambi suoniamo la chitarra, in più io canto e suono l’armonica.
Il nostro repertorio comprende i migliori risultati di songwriters come Bruce Springsteen, Bob Dylan e Neil Young, di artisti country come Johnny Cash e Willie Nelson, di bluesman come Eric Clapton, J.J. Cale, Robert Johnson e Muddy Waters, di gruppi come Rolling Stones, Lynyrd Skynyrd, Cream, U2, Depeche Mode.
L’altra sera abbiamo suonato alla presenza di amici e studenti presso l’associazione musicale Do You Music, in Via Plana 45 a Milano. Un luogo ospitale e amichevole in cui si trova una scuola di musica di ottimo livello.
Federico è uno degli insegnanti di questa scuola, ha studiato alla civica di Milano e conosce molto bene l’armonia jazz, ma ha il blues e il rock che gli scorrono dentro: è proprio in questa veste che si mostra all’interno del duo. Quanto a me, con The Winnemucca Road colgo l’occasione per dare forma artistica ai miei interessi principali e cioè lo studio della cultura popolare in rapporto al miglioramento personale.
Tutti i brani che eseguiamo hanno un valore storico nell’economia del rock, vuoi per i testi, vuoi per i riffs o più in generale per le musiche. Sono canzoni che ci piacciono e che affrontiamo con riverenza e passione, riarrangiando senza stravolgere, soprattutto sotto il profilo ritmico e vocale. L'altra sera abbiamo suonato 21 canzoni, iniziando con Call Me the Breeze e terminando con Sympathy for the Devil, c'è stato anche il tempo per un bis: una versione intimista di Darkness on the Edge of Town.

Federico Rama e Piero Chiappano - The Winnemucca Road
Ora abbiamo l’obiettivo di farci conoscere nei locali e presso le associazioni musicali, anche sviluppando occasioni d’incontro tematiche. Cioè, oltre al classico concerto, vogliamo mettere a punto una serie di scalette organiche che diano la possibilità di costruirci intorno un discorso per allargare l’accezione di intrattenimento musicale.
Una nota sul nome: la Winnemucca Road si trova citata in un brano country, I’ve Been Everywhere, scritto in Australia nel 1959 e poi adattato per il Nord America nel 1962 da Hank Snow, dove divenne un successo del cantante Lucky Starr. È la strada, “long and dusty” (lunga e polverosa), che porta alla cittadina di Winnemucca, nello stato del Nevada. Lunga e polverosa, ma piena di soddisfazioni come sarà la vita artistica del nostro duo, pronto per il suo never ending tour.
See ya up the road!!!

lunedì 8 aprile 2013

Ricordo di Enzo Jannacci

Verso la fine degli anni Ottanta, c’era un negozio in Via Marghera a Milano dove potevi comprare una t-shirt e farci dipingere sopra una scritta. Ricordo di averne comprata una verde sulla quale feci scrivere:

Poveri cantautori, non ci han dato il permesso neanche i suoi genitori!

Una frase un po’ sconnessa di Enzo Jannacci, artista poliedrico e uomo di cui proprio in quegli anni cominciavo ad apprezzare la grandezza.



L’arte di Jannacci parte da lontano e si forma in un’epoca in cui scopo della canzone d’autore era quello di raccontare la vita, possibilmente prendendola dal basso. Enzo vi aggiunge con originalità una robusta dose di ironia surreale, facendo della musica un supporto essenziale per testi che invitano sempre alla riflessione.
L’assurdo, il paradossale, il grottesco, sono la sua firma d’autore, spesso sottolineati da un’espressività paradialettale milanese nonché intonati con partner di rango come Giorgio Gaber e Dario Fo.
Dagli sketch musicali venati di tragicomica malinconia tipici degli anni Sessanta e Settanta (sostenuti da apparizioni cinematografiche, vedi La vita agra di Carlo Lizzani, e importantissime incursioni nel cabaret, con Jannacci “ostetrico” di tanti talenti del Derby di Milano) ai temi di denuncia sociale il passo è breve e così negli anni Ottanta, grazie a due fortunate apparizioni a Sanremo con canzoni sulla droga e sulla mafia (rispettivamente Se me lo dicevi prima e La fotografia), il cantautore arriva a toccare il cuore (lui, cardiologo affermato, già in équipe con Christiaan Barnard) dell’Italia intera.
Di una sua canzone, Faceva il palo, scritta insieme a Walter Valdi, ho parlato nel mio libro Manager Songbook, come metafora musicale delle attività di recruiting, ma ci sono anche altre canzoni di Enzo che possono servire per introdurre temi chiave del mondo del lavoro.
Vengo anch’io. No, tu no parla del mobbing inteso come esclusione ed emarginazione.
Ci vuole orecchio sottolinea la capacità di sintonizzarsi sul giusto ritmo dettato dall’ambiente di lavoro (il mitico ascolto sottile).
Son s’cioppàa descrive la fenomenologia del burn-out lavorativo ed esistenziale.
L’importante è esagerare ironizza sullo yuppismo qualunquistico e italiota, che promuove la forma e annulla la sostanza.
Vincenzina e la fabbrica, uno dei suoi capolavori, anticipa di qualche anno Factory di Bruce Springsteen e parla della mancanza di senso e del vuoto di vita che produce il lavoro serializzato.
Ma è con Quelli che…, scritta in collaborazione con Beppe Viola, superbo esercizio di stile che narra una collezione di umane mediocrità, che Jannacci arriva a sfidare la gente comune, rilevando come per molti il lavoro sia solo una delle tante occasioni perdute per migliorare se stessi:

Quelli che hanno cominciato a lavorare da piccoli, non hanno ancora finito e non sanno che cavolo fanno, oh yes!

Cantata da una persona che ha fatto di due lavori un’unica missione di vita (l’ho già detto: quella di “toccare il cuore”), frasi come questa costituiscono un’eredità di pensiero e azione, un invito a non lasciarsi guidare dal conformismo e dalla superficialità, il cui testimone va assolutamente raccolto, interpretato e divulgato.

martedì 2 aprile 2013

Ode a Franco Califano




Franco Califano (1938-2013)

Hai scritto: un uomo solo nella nebbia
non può parlare manco con il cielo.
Mi basta questo per poter spiegare
che con i versi ci sapevi fare.

Ma una poesia non è solo questione
di metter rime dentro una canzone.
Per fare poesia ci vuol coraggio:
tu pure al fresco stavi all’arrembaggio.

Ti credevamo ai margini di tutto
e invece forse stavi un po’ più sotto
per sollevare i ruzzoli del cuore
e riscattare in musica il dolore,
per dire che anche quando un uomo è solo
può prender l’aria giusta e alzarsi in volo.

Plasmavi i sentimenti come l’oro,
facendo dell’amore il tuo lavoro:
la musica è finita, minuetto
e ancora tante perle nel cassetto.

Chissà se adesso tutto il resto è noia
o la malinconia l’eterno ingoia,
chissà se hai già trovato una ragione
di più per aver fatto indigestione
di tutti quei piaceri popolari
che fan dei giorni un canto di corsari.

La metrica ti è stata sempre amica
come quell’altra cosa (non si dica!),
così ci ho messo il genio a celebrarti
con quelle che son state le tue arti
e se ti son sembrato un po’ maldestro
ti chiedo scusa, ultimo maestro.

                                             Piero Chiappano

mercoledì 27 marzo 2013

Battiato e "la voce del troione"

Franco Battiato, eminentissimo ac reverendissimo musicista di ampia caratura internazionale, si trova in questi giorni nell’occhio del ciclone per aver detto che il parlamento italiano è pieno di troie, interpretando in questo, come giustamente un cantautore deve fare, un pensiero da anni più che comune nella voce popolare.
Allora perché lo scandalo? Semplice, perché anziché gridarlo nei concerti (cosa che praticamente fa da anni, basta leggere i testi di canzoni come Povera patria e Inneres Auge), è andato a sussurrarlo direttamente nel porcile, cioè nel troiaio. Le reazioni di sdegno sono state immediate e bipartisan, col risultato che Battiato, forse caso unico di assessore regionale (della sua Sicilia) che spontaneamente ha scelto fin dalla nomina di non percepire compenso, si è visto revocare ogni incarico.



La vicenda è a dir poco grottesca: Platone, agli albori della filosofia, negava dignità alla rappresentazione artistica in quanto sostanzialmente menzognera rispetto alla realtà, oggi invece, quando l’artista smette i suoi panni e parla da uomo comune, ecco che viene subito accusato di falsità con l’aggravante dell’ingiuria.
E a nulla serve osservare che la parola troia è comune metafora per indicare i voltagabbana, i doppiogiochisti e i cortigiani.
No, qui se ne fa addirittura una questione di dignità femminile, come se il cantautore fosse un misogino represso (proprio lui che quando canta una canzone d’amore come La cura ti fa venire la pelle d’oca per un giorno intero), per cercare di distrarre l’attenzione dal vero problema della politica italiana attuale e cioè la totale assenza di credibilità dei suoi rappresentanti.
Già, in fondo perché perdere tempo a discutere del fatto che, se uno Stato non è nemmeno in grado di proteggere i suoi soldati (mi riferisco ai due marò rispediti nelle carceri indiane), forse Stato non lo è più? Meglio parlare dell’artista, che non essendo giullare di corte bensì libero e influente pensatore (vedi il tutto esaurito registrato nei recenti quattro concerti milanesi, a uno dei quali ho piacevolmente assistito), certe verità non le può proprio raccontare.
Eppure Battiato l’aveva già detto tanti anni fa in Bandiera Bianca (1981):

Per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare
Quei programmi demenziali con tribune elettorali.

Da allora i tempi non sono affatto cambiati, anzi la “voce del padrone”, titolo dell'album che l'ha consacrato, si è fatta più arrogante e volgare: la "voce del troione", appunto. Nella politica come nel business.
Forse sta qui, a giudicare da come l’Italia se la passa economicamente,  la palestra più truce delle troie. Che ovviamente non sono solo donne scostumate, ma scaltri dirigenti, funzionari compiacenti, impiegati meschini…

giovedì 21 marzo 2013

L'umiltà del Papa

La scelta del nome per un Papa è qualcosa di estremamente ponderato, in quanto si tratta di un atto destinato a ricoprire un doppio significato: uno per lo storico interiore della persona che da quel giorno sarà chiamata così, uno per il popolo che così lo chiamerà fino alla fine dei suoi giorni (salvo curiose dimissioni).
Come tutti hanno già avuto modo di commentare, il cardinal Bergoglio ha scelto di chiamarsi Francesco. Il nome di un santo votato alla povertà, patrono di questa nostra sbagasciata Italia, ma anche un nome che siamo soliti associare a un amico, un parente stretto, un compagno di giochi o di scuola. Insomma, quanto di più famigliare si possa pensare.



Nel caso del papa, posto che al nomen omen dovranno seguire i fatti, è innegabile che è già a partire dall'eco che quel nome suscita nell’immaginario collettivo egli abbia voluto presentarsi all’universalità cattolica con un mandato ben preciso, che è quello dell’ascolto, della benevolenza, della partecipazione, dell’esperienza quotidiana. L’idea di un papa che è stato uomo, che conosce il linguaggio e le debolezze dell’uomo, che probabilmente si sente profondamente uomo.
Ecco, non sono questi messaggi forti per i leader di tutto il mondo, compresi quelli aziendali?
Papa Francesco sembra avere tutte le caratteristiche del leader trasformazionale, che ispira fiducia, che parte dalla persona per arrivare al ruolo, che conosce i gesti e i momenti della comunicazione. E sta piacendo perché ha il coraggio della normalità e di contrapporsi in modo dimesso alle teorie degli eccessi (in linguaggio manageriale parleremmo di benefit & compensation) che ormai dal suscitare scandalo sono passate a evocare disprezzo (vedi i superbonus del manager della finanza). Le premesse, par di capire, sono buone, soprattutto sul piano dell’umiltà e nella coscienza di ruolo.
Nel 1979 Bob Dylan aveva pubblicato una canzone decisamente cruda intitolata Gotta Serve Somebody, il cui testo contiene una riflessione sull'inevitabilità del concetto di servizio:

Puoi essere un predicatore con il tuo orgoglio spirituale
Puoi essere un assessore che intasca la tangente
Puoi
lavorare in un negozio di barbiere, puoi sapere come si tagliano i capelli
Puoi essere l'amante di qualcuno o puoi esserne l'erede
Ma devi servire qualcuno, sì, è così, devi servire qualcuno
Sia esso il Diavolo o il Signore, ma qualcuno lo devi servire.



Come è noto fin dall’alto medioevo il Papa veniva chiamato “servo dei servi di Dio”. L’attuale Francesco riporta alla mente, in modo del tutto naturale, questa espressione e c’è da augurarsi che il suo stile diventi esempio per i molti leader che non sono pastori di anime, ma gestori di persone.

lunedì 18 febbraio 2013

Marzulleide

Anche quest’anno si è conclusa l’ignominia festivaliera, specchio di un paese in crisi di idee e originalità. Ha vinto Marco Mengoni con una canzone che inizia con parole scontate:

Sostengono gli eroi:
se il gioco si fa duro
è da giocare

rese però uniche da una voce che sembra quella di un malcapitato calato di peso su un paracarro. A seguire Elio e le Storie Tese, sempre uguali a se stessi, l’ultima sera in versione sig. Creosoto di Monty Python, con una canzone che neanche vent’anni fa avrebbe fatto la differenza. Terzi classificati i Modà con un pezzo auto celebrativo che più arcaico non si può.
Ma allora perché parlarne? Per un fatto collaterale, ma significativo: quest’anno era severamente vietato parlare male di Sanremo. Proprio come era successo l’estate scorsa con la nazionale di Cesare Prandelli, che doveva giocare bene per principio nonostante la peggior sconfitta che squadra finalista ricordi, così ora bisognava far sì che determinate certezze non fossero scalfite. Ed eccoci allora a rinsaldare l’italianità col buonismo di Fabio Fazio, la farfallona di Lucianina, il Va’ Pensiero di Giuseppe Verdi e soprattutto una RAI concorde e allineata fino al parossismo nel magnificare l’incredibile statura artistica degli interpreti e delle canzoni.
In tutto questo la mia attenzione è stata catturata dall’atteggiamento di Gigi Marzullo, grande orchestratore di una specie di dopo-festival in cui tutti gli intervistati sembravano esaltati dallo spettacolo a cui avevano da poco assistito.


E pensare che lo stesso Marzullo presenta ogni sabato notte uno spettacolo di critica cinematografica in cui i giornalisti massacrano a colpi di bazooka tanto i filmacci quanto i capolavori.
Cosa c’è di strano in tutto questo? Beh, che Marzullo non dice mai come la pensa, anzi, si guarda bene dal far anche solo vagamente trapelare se apprezza o se detesta, insomma: presentator non porta pena.
La figura di Marzullo diventa quindi centrale per capire come si fa a sopravvivere professionalmente in Italia e insegna ai manager d’azienda la prudente virtù dell’ignavia.
Dopotutto, tra il passacarte e il passamicrofono che differenza c’è? Nessuna, soprattutto se ti crei un’immagine da sfigato a cui nessuno vorrebbe assomigliare. Capelli assurdi, occhiali assurdi, espressione assurda: Marzullo è a suo modo un eroe, anche lui seduto su un paracarro…