Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

mercoledì 19 novembre 2014

Ligabue - Il muro del suono

Il muro del suono è una canzone tratta da Mondovisione (2013) che racconta della necessità di contrapporsi a un sistema autodistruttivo. La resa del messaggio risulta particolarmente efficace se alla canzone si associa il videoclip ufficiale.

Ligabue e la band nelle officine reggiane
Qui la band del Liga suona all’interno di una fabbrica dismessa (le officine reggiane) ridotta a poco meno che macerie e detriti. Nel disordine, nella polvere, nella desolazione, nelle scartoffie dimenticate chi guarda può ripercorrere con la fantasia il tempo in cui quel luogo era vivo e operoso, aiutato da alcune sovrimpressioni che segnalano a cosa gli ambienti erano in origine preposti: fonderia, officina, catena di montaggio, uffici, risorse umane, sala riunione, direzione generale. E non è possibile non provare un senso di commiserazione per ciò che fu.
Il testo a questo punto risulta più chiaro e barricadiero: siamo vittime di un sistema economico che si alimenta della propria autodistruzione, traendo profitto non dalla produzione, ma dalla speculazione. Contano i titoli azionari, non i prodotti; la qualità e la quantità di lavoro (intellettuale o manuale) che un manufatto porta con sé sono solo pretesti necessari per avvalorare operazioni finanziarie transnazionali. Non c’è più interesse per la trasformazione, la riattualizzazione, la riconversione. Meglio buttare via tutto e risorgere sotto altra forma, altri marchi, altri sorrisi splendenti.
Peccato che per tutto questo, e cioè per la soddisfazione di pochi, il prezzo da pagare sia sempre più alto, offensivamente alto, maledettamente alto, e cioè la condizione esistenziale sempre più precaria di milioni di lavoratori: ostaggi di un banditismo imprenditoriale che non ha nemmeno più l’interesse a scambiarli o riqualificarli, ma preferisce incorporarli al destino della fabbrica una volta esaurita la loro funzione storica (un po’ come se gli antichi egizi, una volta terminata una piramide, vi avessero murato dentro gli schiavi utilizzati per costruirla).
Il testo di Ligabue porta a chiedersi che cosa si può fare per non essere così drammaticamente complici. In particolare l’amletica questione diventa il cruccio dei manager. Oggi le carriere, anche dirigenziali,  sembrano sempre più mandati a termine, contratti a progetto, con obiettivi di corto respiro. Vale ancora la pena investire così tanto in autoformazione per poi ridursi a eseguire ordini totalmente decontestualizzati dalla realtà sociale? Quando torniamo a casa dalle nostre famiglie, con quanta sporcizia sulle mani accarezziamo il volto dei nostri figli? Con quanto veleno in gola baciamo i nostri cari? Cosa ce ne facciamo del nostro prestigio e della nostra retribuzione quando spegniamo la luce e cerchiamo di prendere sonno? Siamo manager o mercenari?
Questa è la sottotraccia di Il muro del suono.
Il video mette in evidenza alcune scritte che compaiono in stile graffito sui muri della fabbrica dismessa:

- Defibrillatore culturale. Energia da storia arte e lotta
- Mi fa male la memoria a breve termine
- Pensiero
- Solo questione di prospettive
- Coincidenza un cazzo
- Scusa! Ma è un mondo di scuse


Sono come rapide annotazioni sul taccuino del cervello, ma estremamente potenti perché hanno il valore di attivatori di scintille che illuminano una convinzione pronta a farsi comportamento e a renderci più forti nel metterci contro la tentazione che tanto è così e niente si può fare.

martedì 11 novembre 2014

Canzoni e Censura

Un curioso libretto mi ha fatto compagnia durante un viaggio in treno per Roma. Si tratta di L’importante è proibire. Tutto quello che la censura ha proibito nelle canzoni di Maurizio Targa (Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, Roma , 2011).


Si tratta di un volume ricchissimo di aneddoti che, aldilà dell’aspetto tecnico (che riguarda gli addetti ai lavori), getta luce su alcuni aspetti della nostra vita culturale nei quali ci troviamo immersi, in particolare sull’uso e la diffusione di certe parole. 
La commissione preposta alle sforbiciate morali agiva non solo sulla lettera, ma anche in nome di un’interpretazione del tutto soggettiva dei commissari stessi, costringendo gli autori a purgare i testi, talvolta a snaturarli. 
Senza entrare nel merito di molti casi anche famosi di cui si trovano agevolmente notizie in merito, come a proposito di 4/3/1943 di Dalla o L’importante è finire di Mina, preferisco osservare come sia sempre storicamente evidente la relatività del punto di vista censorio, totalmente subordinata al potente di turno e al pensiero che si vuole divulgare e tutelare. In particolare fa molta pena osservare che siano stati proprio i governi democratici a operare i tagli più assurdi e perversi, incarognendosi nel segno di moralismi di scarsissimo pregio, facendo fare una illustre figura a culture spesso tacciate di autoritarismo come quella della Chiesa Cattolica Apostolica Romana che in campo di musica popolare si è invece sempre dimostrata sorprendentemente pronta ad accogliere le novità.
Un caso non da poco e molto recente, riguarda il periodo immediatamente successivo alla tragedia delle torri gemelle. Diversi programmatori radiofonici americani scelsero di non mandare in onda tutte le canzoni che contenevano nel titolo o nei loro versi ripetuti accenni a concetti come fuoco, volo, aereo, polvere, incidente, ali, inferno, sangue. Qui propriamente non si tratta di censura di Stato, ma è evidente l’applicazione del giochetto per cui la parola viene cassata in quanto portatrice di uno spettro semantico non completamente controllabile. Ecco qui la libertà dei cittadini americani: quella di essere considerati stupidi.
Un caso diametralmente opposto invece è quello che rivela come la prospettiva della censura in alcuni casi abbia svolto un ruolo positivo nel salvare l’artisticità e la poesia di un brano. Ecco un esempio: pare che Roberto Vecchioni abbia scritto il testo di Luci a San Siro in risposta a un discografico che lo accusava di scrivere in modo antiquato. Per dimostrare la sua attualità Vecchioni si lascia andare a espressioni non proprio fini, ecco un esempi tra gli altri:

Fatti pagare, fatti valere,
più lecchi il culo e più ti dicono di sì
e se hai la bocca sporca che importa
tienila chiusa…

Questa frase, come altre, verrà risistemata dall’autore, dando vita a un capolavoro equilibrato e perfettamente chiaro pur nell’uso (intelligente) degli eufemismi.

Il richiamo al mondo delle aziende viene spontaneo: da quando la lingua inglese è diventata la portavoce ufficiale del New World Order si assiste a una ridicola ostentazione di una terminologia gergale che personalmente non trovo per niente originale né utile. Anzi, considero la scelta di non tradurre dall’inglese determinate parole o la sostituzione di quelle italiane con motti anglosassoni un modo per nascondere, dietro la pretesa di un intellettualismo un po’ esotico, una sostanziale mancanza di contenuti. Specchio dei tempi…

mercoledì 5 novembre 2014

Eugenio Finardi - Cadere sognare

Nel 2014 è uscito un disco per la Universal che è passato (ma che strano!) quasi totalmente inosservato. Si tratta di Fibrillante di Eugenio Finardi, un disco arrabbiato e coerente, come non se ne fanno quasi più.
Le notizie positive sono almeno due: la prima è che la canzone d’autore non è morta sotto le cannonate dei reality canori, la seconda è che il nostro ambiente musicale, ormai pecorinato alla superficialità del pop più ostentato, evidentemente riesce a trovare ancora qualche euro per divulgare un messaggio intelligente.
Una persona coerente e al di sopra di ogni sospetto come Finardi, dopo un abbondante decennio di esplorazioni musicali (blues, fado ecc.), ritorna ai temi della sua gioventù per riscoprirli attuali. In più li condisce di maturità, consapevolezza e poesia.

Eugenio Finardi oggi
Fibrillante è un album che parla dell’attualità socio economica come solo i grandi dischi rock sapevano fare e obbliga chi ascolta a prendere una posizione.
Qui segnalo la canzone Cadere sognare, gratificata addirittura da un doppio passaggio televisivo alla Gabbia di Gianluigi Paragone.
La musica, col suo incedere faticoso e tormentato, sottolinea un testo che descrive il fallimento professionale e umano di una persona cresciuta obbedendo ai dettami della società e poi ritrovatasi improvvisamente ai margini di tutto, a partire dal licenziamento perché la sua azienda ha delocalizzato produzione e uffici. Il crollo di autostima porta all’isolamento, all’alcolismo e alla voglia di riscatto urlata con rabbia:

Classe dirigente d'imbroglioni, sfruttatori senza senso del domani, senza voglia di sporcarsi mai le mani, ideologi cresciuti alla Bocconi. Il vostro liberismo mi ha ammazzato, di ogni mio sogno derubato, ormai anche mia moglie mi ha lasciato, e adesso sono rovinato…

Fino a maturare, con impeto d’orgoglio, il senso di vendetta, anch’esso inciso senza mezze misure:

E grido finché vi vedrò pagare, maiali senza il minimo pudore, e spegnere quel ghigno che fa male, che offende chi non riesce a respirare. Ho chiuso con la società civile, con i vostri furbi giochi di parole, che alla fine resta sempre tutto uguale e aspetterò seduto in riva al fiume, fino a che non vi vedrò cadere giù e non tornare più!

C’è tutta l’innocenza del rock in queste parole, che per economia testuale descrivono una situazione simbolica, ma che a ben vedere raccontano molto di più del caso umano narrato in prima persona. Finardi infatti mette in chiaro che il fallimento non riguarda un uomo, ma un intero sistema, di cui probabilmente siamo tutti un po’ complici, a partire da quando contempliamo con indifferenza le pedine che cadono intorno a noi, pensando che a noi non toccherà mai. È un po’ la vecchia storia di ignorare le cose perché finché le ignoriamo ci sembra che non esistano. E invece tutto accade e l’erba grama continua a crescere.
Portare coscienza nel proprio ambiente di lavoro e discuterne in modo realistico e propositivo potrebbe già contribuire a colorare la realtà di una luce quantomeno più vera e passo a passo diffondere una mentalità in grado di portare soluzioni e individuare percorsi alternativi.

Perché al punto di non ritorno siamo davvero vicini.