Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

venerdì 17 aprile 2015

La grandezza dei Beatles

Di recente mi sono accostato ai Beatles esercitando sul loro repertorio un ascolto critico e in cronologia progressiva. È forse questo il metodo più sicuro per capire il loro ruolo nella musica popolare ed evitare di abbracciare i pregiudizi artistici che qua e là li accompagnano. Provo a sintetizzare i motivi del loro valore.


Il costume – I Beatles, discograficamente attivi come gruppo dal 1962 al 1970, hanno sempre accompagnato i loro prodotti artistici con un’immagine non necessariamente innovativa (a parte il caschetto degli albori), ma coerente col messaggio che la loro musica voleva dare: i capelli lunghi, la psichedelia, l’India, l’uso del mezzo televisivo e cinematografico, la trovata del roof concert, l’impertinenza verbale. Tutti elementi che, pur pensati a semplice sostegno del prodotto, sono entrati nell’iconografia rock fino a farne un sistema di riferimento.

Le composizioni – La prolificità in rapporto al tempo di lavoro annichilisce qualunque autore di musica (gli unici casi analoghi e comunque più limitati che mi vengono in mente sono i Beach Boys e i Creedence Clearwater Revival). Ciò che sorprende di più e che nettamente distingue i Beatles da chiunque altro è la varietà di stimoli che hanno saputo sfruttare. Canzoni come Eleanor Rigby ed Helter Skelter sembrano appartenere a due mondi lontanissimi, eppure sono uscite dalla stessa penna (Paul McCartney). Lo stesso dicasi per All You need Is Love e Tomorrow Never Knows  di John Lennon. Fondamentale è poi il fatto che il materiale armonico messo in circolo dai Beatles è tutt’altro che scontato. Giusto per fare un esempio, canzoni come Michelle e The Fool on the Hill presentano la strofa in tonalità maggiore e il ritornello in minore secondo modalità completamente estranee alle varie fabbriche di hits discografiche di qualunque epoca. Per la qualità non voglio addentrarmi in valutazioni soggettive, preferisco rilevare che le cover più riuscite dei loro brani hanno messo in assoluta evidenza il potenziale di energia transculturale ivi contenuto: elemento indubbiamente universale e tipicamente connotante ciò che può essere definito classico (si pensi al lavoro svolto da Jimi Hendrix su Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, da Joe Cocker su With a Little Help from My Friends, ma segnalo anche l’incredibile alternative take di While My Guitar Gently Weeps cantata dallo stesso George Harrison e reperibile sull’Anthology degli anni Novanta).

La produzione – Nell’arco della loro parabola artistica i Beatles sono sempre stati affiancati da un musicista e arrangiatore straordinario, George Martin (a suo agio con le orchestre sinfoniche come con i loop dei nastri magnetici), che ha saputo sempre dare forma alle intuizioni dei quattro, dimostrando una vocazione alla sperimentazione e all’approfondimento per le tecniche di registrazione che denotano la volontà di andare molto oltre la tranquilla rendita garantita dalla fama e dalla bellezza degli spunti melodici.

L’influenza – Qualcuno sostiene che esista una musica prima dei Beatles e una musica dopo i Beatles. Difficile e forse inutile rispondere. Sintetizzando tuttavia si può dire che i Beatles si sono appropriati rapidamente di quanto di meglio secondo loro c’era in circolazione (Chuck Berry, Buddy Holly, Everly Bros., Bob Dylan, Beach Boys, Motown sound, senza disdegnare di portare il country in Europa). Nel farlo, hanno dimostrato che una sintesi non solo era possibile, ma necessaria per preludere a sviluppi futuri. Le loro influenze sono ben visibili, ma si inseriscono in una logica di continuità e non di plagio artistico i cui esiti rivelano che la tradizione della buona musica esiste per essere trascesa, non stravolta. Sicuramente la loro fama mondiale ha svecchiato, senza usurparle, molte tradizioni locali (si pensi al beat italiano) e lo stesso rock americano ha ricevuto un nuovo impulso dalla constatazione che gli “imitatori” inglesi stavano facendo musica migliore della loro. Credo sia appena il caso di osservare che l'influenza dei Beatles va oltre l'ambiente musicale: è nota infatti l'ammirazione di Steve Jobs per i Beatles. Nella sua biografia più importante, quella di Walter Isaacson, Jobs si sofferma sul processo compositivo di Strawberry Fields Forever per ragionare sull'alacrità di un lavoro ben fatto e si sa che lo stesso nome Apple è trasposto copia carbone dalla casa di produzione dei quattro.

Le personalità – Aldilà del successo (fenomeno socioeconomico che di per sé non è probante per certificare la grandezza di un artista pop-rock) e dei clamori gossippari che lo accompagna, è un fatto che parlare dei Beatles significa discutere di uomini con tratti di personalità molto marcati. Quattro professionisti di cui almeno tre – John, Paul, George – così pressati dalle loro esigenze artistiche e personali, da arrivare a sacrificare l’impero costruito. Sicuramente, a livello di spirito di team, non ha giovato la scelta, maturata a metà anni Sessanta, di non fare più concerti. Ciò ha ulteriormente condizionato la tendenza di John e Paul a non scrivere più in coppia (nonostante, come è noto,  i credits dichiarino altro). La ricerca di una maturità personale e la realizzazione dei propri progetti di vita privata hanno fatto il resto. Nel loro scioglimento paradossalmente possiamo constatare la garanzia di buona fede: cioè la volontà di liberarsi dalle etichette per essere fedeli e dare pieno corso alla realizzazione della propria natura (“I don’t beleave in Beatles”, dirà John Lennon in God, una delle sue canzoni-manifesto del tardo 1970). Resta il fatto che ognuno di loro ha rappresentato negli anni successivi all’avventura dei Fab Four molto di più del tedioso spettacolo di giovani miliardari annoiati, continuando a orientare scelte, gusti e a stimolare progetti di emulazione.




I Beatles hanno incarnato un marchio e rappresentato un’azienda che ha conseguito in pochissimi anni risultati straordinari. La loro storia offre una miniera di informazioni e spunti per qualunque impresa commerciale e toglie un sacco di alibi a imprenditori e dirigenti mediocri. I Beatles hanno prodotto i loro capolavori in un’epoca di cambiamenti radicali, in cui tutti i punti di riferimento culturali stavano saltando in aria. Ebbene: sono diventati così significativi per il loro tempo (e con un minimo di ascolto guidato, anche per il nostro) proprio perché sono stati più rapidi e forti del cambiamento stesso. Hanno saputo prendere a sportellate qualunque ipotesi di crisi e mancanza di senso generazionale liricizzando le loro emozioni e il proprio vissuto, mantenendo una prospettiva che oggi definiremmo glocal. Non è solo un fatto di talento puramente musicale: molti dei loro testi, pur non assurgendo al livello cui poteva averci abituato Bob Dylan, non sono per niente banali e riflettono il coraggio di manifestare se stessi, nonostante le esigenze di mercato. I Beatles si sono sciolti semplicemente perché sentivano di aver bruciato completamente quell’esperienza (che, non dimentichiamo, per loro si è svolta tra i 20 e i 30 anni anagrafici e quindi in età di definitiva formazione), ma la loro eredità rimane una pietra di confronto per tutti quelli che si augurano di poter vivere traducendo le proprie idee in un business plan.