A Lou Reed viene ascritto il merito storico di avere precorso il punk con l’esperienza dei Velvet Underground e di aver promosso, qualche anno dopo, il glam rock insieme a David Bowie.
Vorrei però qui ricordarlo non tanto per i meriti strettamente tecnici, quanto per la sua forza evocativa.
Il suo modo di cantare, gli arrangiamenti e soprattutto i testi ci proiettano in un’atmosfera di claustrofobica decadenza, dove la sperimentazione va a braccetto con la disperazione.
Le canzoni di Lou Reed non risparmiano nulla, raccontano immagini di quella realtà che ci piacerebbe relegata ai b-movie e che invece è profondamente nostra. L’abbruttimento dell’alienazione, l’umiliazione della dipendenza, il vizio, la perversione, la delinquenza, la sporcizia, l’odore di piscia ai bordi delle strade, l’equivocità, lo sbandamento. Lou Reed scrive come se si muovesse su un piano psicanalitico e ci offre un viaggio attraverso i suoi demoni, lasciando ad intendere che sono anche i nostri. Con la differenza che lui ha cominciato ad affrontarli da ragazzino, mentre molti di noi sanno solo rimandare. È il poeta del disvelamento, del magma primordiale, dei vicoli urbani, delle notti laide.
Pur tenendosi fuori dal dibattito politico, è stato tra i primi a presentare quel lato degli Stati Uniti che al mondo doveva restare segreto, popolato da un’umanità che ha smesso di fare domande, segnale irreversibile di un progetto molto meno idilliaco e visionario di quanto il sogno americano avrebbe voluto far intendere.
Il minimalismo delle sue strutture armoniche, interpretato da uno sferragliare di chitarre elettriche alla portata di ogni garage band, ben rappresenta quel rigore geometrico con cui lo spirito umano può attraversare certe lande desolate senza fingere di essere da un’altra parte. La vita è qui e la vivo adesso e imparo a non averne paura, anche se il viaggio lo farò da solo.
Come altri illuminati del rock (Eric Clapton, Keith Richards e Joe Strummer su tutti) Lou Reed frequenta un’istituto d’arte e stringe un patto con la sua sensibilità che lo porterà a trasfigurare poeticamente i bassifondi di New York. Ma il suo linguaggio, proprio in quanto poetico, si presta bene a essere metaforizzato e le immagini che crea sono un costante invito al confronto e al superamento del perbenismo. In particolar modo a quella forma di perbenismo che occulta la vera natura dei rapporti di potere e di ciò che di disequilibrato alberga dietro ruoli, biglietti da visita, privilegi e cariche onorifiche.
Fatti un giro nella zona selvaggia
recita il suo slogan più famoso. Un provocatorio invito tracciato per immagini che può essere un modo per fare i conti con quello che realmente ci circonda, far cadere falsi miti, farci cambiare idea su certi progetti di carriera, ma darci libertà di pensiero e azione.
Vorrei però qui ricordarlo non tanto per i meriti strettamente tecnici, quanto per la sua forza evocativa.
Il suo modo di cantare, gli arrangiamenti e soprattutto i testi ci proiettano in un’atmosfera di claustrofobica decadenza, dove la sperimentazione va a braccetto con la disperazione.
Le canzoni di Lou Reed non risparmiano nulla, raccontano immagini di quella realtà che ci piacerebbe relegata ai b-movie e che invece è profondamente nostra. L’abbruttimento dell’alienazione, l’umiliazione della dipendenza, il vizio, la perversione, la delinquenza, la sporcizia, l’odore di piscia ai bordi delle strade, l’equivocità, lo sbandamento. Lou Reed scrive come se si muovesse su un piano psicanalitico e ci offre un viaggio attraverso i suoi demoni, lasciando ad intendere che sono anche i nostri. Con la differenza che lui ha cominciato ad affrontarli da ragazzino, mentre molti di noi sanno solo rimandare. È il poeta del disvelamento, del magma primordiale, dei vicoli urbani, delle notti laide.
Pur tenendosi fuori dal dibattito politico, è stato tra i primi a presentare quel lato degli Stati Uniti che al mondo doveva restare segreto, popolato da un’umanità che ha smesso di fare domande, segnale irreversibile di un progetto molto meno idilliaco e visionario di quanto il sogno americano avrebbe voluto far intendere.
Il minimalismo delle sue strutture armoniche, interpretato da uno sferragliare di chitarre elettriche alla portata di ogni garage band, ben rappresenta quel rigore geometrico con cui lo spirito umano può attraversare certe lande desolate senza fingere di essere da un’altra parte. La vita è qui e la vivo adesso e imparo a non averne paura, anche se il viaggio lo farò da solo.
Come altri illuminati del rock (Eric Clapton, Keith Richards e Joe Strummer su tutti) Lou Reed frequenta un’istituto d’arte e stringe un patto con la sua sensibilità che lo porterà a trasfigurare poeticamente i bassifondi di New York. Ma il suo linguaggio, proprio in quanto poetico, si presta bene a essere metaforizzato e le immagini che crea sono un costante invito al confronto e al superamento del perbenismo. In particolar modo a quella forma di perbenismo che occulta la vera natura dei rapporti di potere e di ciò che di disequilibrato alberga dietro ruoli, biglietti da visita, privilegi e cariche onorifiche.
Fatti un giro nella zona selvaggia
recita il suo slogan più famoso. Un provocatorio invito tracciato per immagini che può essere un modo per fare i conti con quello che realmente ci circonda, far cadere falsi miti, farci cambiare idea su certi progetti di carriera, ma darci libertà di pensiero e azione.