Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

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lunedì 1 dicembre 2014

Professione personal trainer – Piero Chiappano – 2014

In questi giorni è in distribuzione nelle migliori librerie il mio libro Professione personal trainer. Strategie imprenditoriali per trasformare una passione in professione, pubblicato dalla FrancoAngeli (Milano, dicembre 2014),  la casa editrice leader nella saggistica manageriale in Italia.
Il libro raccoglie le mie pluriennali riflessioni su una professione emergente e remunerativa nell’era dei servizi e passa in rassegna molti temi affrontati nella mia attività di formatore. Lavorando ufficialmente nel settore del fitness dal 2002, ho infatti avuto modo di osservare e di confrontarmi direttamente con l’evoluzione di questo mercato, oggi più vicino al leisure che non alla pratica sportiva.


Il libro comincia con una disamina (anche provocatoria) dei luoghi comuni legati alla professione del personal trainer, per poi virare verso i temi centrali a cui saranno dedicati altrettanti capitoli: la strategia d’impresa, la soddisfazione del cliente, lo sviluppo personale. Si tratta di dimensioni chiave per il successo, che spesso però vengono considerate solo in corso d’opera e non predisposte in partenza nella cassetta degli attrezzi del professionista.
In queste pagine cerco di sensibilizzare alla disciplina, alla sistematicità e al realismo nel considerare il contesto di riferimento: fatto di clienti sempre più esigenti e abituati ad acquistare non più semplici beni o servizi, ma soluzioni che semplifichino e migliorino in modo significativo la loro vita.
Chi legge affronta una cavalcata negli strumenti più noti della strategia e del marketing, nelle considerazioni legate all’experience economy, nella disamina di  una griglia di competenze manageriali predisposta ad hoc. Per arrivare poi ad elementi di gestione del tempo e di organizzazione dell’agenda, e per concludere con alcuni suggerimenti su come impostare il proprio business plan e quindi la propria gestione economica. In appendice si trovano alcuni appunti che citano le scuole di formazione alle quali ci si può rivolgere per sviluppare o migliorare il proprio background tecnico.
Considero il capitolo dedicato alla soddisfazione del cliente particolarmente originale e invito i lettori ad affrontarlo con la giusta obiettività ed apertura mentale: qui, attingendo al pensiero di due celebri etologi come Desmond Morris e Konrad Lorenz,  suggerisco numerosi spunti per capire la complessità della trattativa e della fidelizzazione in un settore come l’attività fisica, dove non si può trovare beneficio se non attraverso un sacrificio (che i consumatori di oggi, per statuto, sono sempre meno disposti a compiere).

Il libro è arricchito da molte metafore tratte da mondo della musica rock che spero rendano gradevole la lettura. Bruce Springsteen è il nostro mentore per la creazione di un’esperienza memorabile, Jimmy Page suggerisce un modello per lo sviluppo personale, Johnny Cash ci dà un’idea di che cos’è il coaching, Leo Fender diventa partner nell’illustrazione del pensiero laterale. Insomma, non è il solito libro, e mi auguro vivamente che sia utile a chi sta per affrontare una nuova avventura professionale e a chi già l’ha intrapresa da tempo ed è alla ricerca di nuovi stimoli organizzativi e imprenditoriali.

martedì 16 luglio 2013

Springsteen - e Roma diventa New York

Nel post precedente relativo al concerto di Milano 2013 avevo segnalato come il popolo di Bruce avesse avuto un moto di orgoglio nazionalistico esibendo una coreografia incredibile a San Siro laddove, in bianco, rosso e verde, l’arrivo del Boss è stato salutato dalla frase “our love is real”. Appena sotto questa frase, e quindi nel primo anello dello stadio, è comparsa la sigla NYCS. per lì non era chiaro e forse era poco importante di cosa si trattasse. Ebbene, pochi giorni fa all’ippodromo Le Capannelle di Roma, il mistero è stato svelato.
Per la prima volta fuori da New York, Springsteen ha infatti eseguito una canzone del suo secondo album (pubblicato 40 anni fa), New York City Serenade. Una canzone lontana dal rock & roll al quale il nostro ci ha abituati, ricca invece di suggestioni nere (dal soul al jazz) accarezzate da percussioni latine, testimonianza di un giovane artista alla ricerca del suo stile, creativamente esuberante e senza la preoccupazione della sintesi.


i violini italiani accompagnano Bruce Springsteen

Si è insomma verificato il caso in cui viene mantenuta una promessa che nessuno ha fatto. Semplicemente sono state soddisfatte aspettative di reciproca generosità che fanno pensare alla possibilità di realizzare una società basata sull’ascolto e la comprensione. D’accordo, stiamo parlando di un clima emotivo tutto speciale, ma la musica, almeno quella di Springsteen (non dimentichiamo che da Padova a Milano si era spostato su di un treno di linea…), non è solo una manifestazione artistica: trasfigura la vita reale per redimerla, condizionarla, orientarla. E in questo regalo pensato a Milano e fatto a Roma (giusto il tempo di reclutare una sezione d’archi della capitale con tanto di direttore d’orchestra) ci sta anche il senso più pulito di come interpretare un mondo in cui le distanze geografiche si sono azzerate. Springsteen ancora una volta ci ricorda che il rock è speranza. Lui stesso, che in Open All Night cantava:

Rock’n’Roll, liberami dal nulla

ferma il tempo con una esecuzione di cui si parlerà per anni, dove una storia di ragazzi di strada si dipana nella notte metropolitana (Roma come New York), dove il peccato è dolce, il rischio è piacere, il presente è tutto e il senso delle cose riposa solo nel farle (beata gioventù). Ma New York City Serenade contiene anche un monito che vale per la vita:

Questo non è il momento di essere carini:
è una passeggiata per cani pazzi,
quindi cammina a testa alta
o non camminare affatto.

Per capire di cosa si tratta vi invito a non perdere tempo e collegarvi su Youtube a questo indirizzo:


e non sottovalutate il fatto che alla fine della canzone il Boss che tutti vorremmo ha stretto la mano a tutti i violinisti.

martedì 4 giugno 2013

Springsteen - il Boss di San Siro

Avete presente la massima evangelica “beati gli ultimi perché un giorno saranno i primi”? Ecco, Bruce Springsteen, il Papa del rock, attualmente è forse l’uomo più in grado di renderla credibile.
Lui, nato tra gli ultimi, è diventato primo, e da primo gira il mondo parlando agli ultimi di speranza, sogno, fatica, attesa. Lui, che ce l’ha fatta, non vede l’ora di strapparsi le corde vocali per darci la sua lezione, che non è una scorciatoia, ma una cavalcata lungo i sentieri polverosi del rock.
E così anche quest’anno siamo andati alla sua liturgia nel tempio di San Siro a Milano (è il quinto concerto in questo stadio), dove ci ha accolto con una potenza inaudita (i primi cinque brani, tiratissimi, nella scaletta di un comune mortale sarebbero stati dei bis), prima di proiettarci in una dimensione più cruda e realistica con una canzone, Death to My Hometown, che più esplicita e attuale non si può:

Manda i capitalisti senza scrupoli dritti all’inferno,
i ladri avidi che sono arrivati
e hanno mangiato la carne di tutto ciò che hanno trovato
e i cui crimini sono ancora rimasti impuniti.
Quelli che ora percorrono la strada da uomini liberi
hanno portato la morte nella nostra città.

Un’invettiva brutale contro la finanza selvaggia, ma che in Italia può anche essere letta in una dimensione politica. Perché di grandi aziende di proprietà italiana ne restano sempre meno e i padroni stranieri hanno molto poco interesse a tutelare i posti di lavoro di persone con le quali non condividono alcun tipo di legame.
La riforma Fornero – dopo quasi un anno possiamo abbozzare un bilancio –  quali effetti sembra aver innescato?
Ha aumentato la flessibilità in entrata, ma ha anche alimentato il precariato: coi contratti a termine cosiddetti acausali le aziende sono sempre legittimate a disfarsi della zavorra umana, mentre il nuovo apprendistato è ancorato a una burocrazia talmente complessa da scoraggiarne il ricorso anche agli HR manager più filantropici.
In compenso il già mitico licenziamento “per motivi economici” si è rapidamente imposto come sentina per la mala gestione: da una parte i giudici non hanno tempo di entrare nel merito e quindi premono per conciliare le posizioni dietro incentivo (col dipendente “accontentato” che resta a casa), dall’altra le aziende utilizzano i licenziamenti per compensare i mancati guadagni previsti.
Risultato: una corsa sempre più frenetica alla dissoluzione del sistema che sul lungo periodo avrà solo perdenti.
Ma, tornando al nostro Papa del rock, mi piace sottolineare come ieri sera, con grande sorpresa dell’artista stesso, sia stato accolto da una spettacolare coreografia tricolore che dal terzo anello digradava nel prato per arrivare fino al palco.


Ecco come ci hanno ridotti: deve venire un americano con madre di origine italiana a farci sentire orgogliosi della nostra terra, a farcela amare e benedire e a ricordarci di avere una bandiera da rispettare e esibire con orgoglio. Sì, perché qui da noi i profeti sono finiti da tempo, sostituiti da corvi travestiti da cornacchie che non hanno nemmeno più il pudore di fingersi colombe.
E allora diamoci dentro e facciamo sapere in giro che esiste anche un altro tipo di italiano, quello che non scappa di fronte alle responsabilità, che paga i suoi conti fino all’ultima goccia di sudore e che “ultimo” non è anche se c’è chi fa di tutto per ferirlo nella dignità. Perché in un’Italia normale, che tale evidentemente non è, non si dovrebbe ringraziare di avere un lavoro, ma è il datore di lavoro che dovrebbe ringraziare per aver trovato lavoratori onesti.
Se proprio ci dobbiamo sforzare per trovare un buon motivo per chi ieri sera è rimasto a casa, potrebbe essere questo: ve li immaginate quei 65.000 spettatori tapini, dopo aver celebrato il rito laico della comunità del rock in marcia verso un futuro migliore, guidata da un uomo che chiamano  il BOSS, andare in ufficio il mattino dopo e riprendere la vita di sempre, cioè non celebrare niente, marciando verso il nulla (o navigando a vista) e obbedendo a qualcuno che vorrebbe farsi chiamare boss, e li guida senza volante?
Mi fa notare il mio amico Marco che i 65.000 non erano spettatori passivi, ma, pur nel rispetto dei ruoli, tutti ben intenzionati a creare sinergia, a portare un contributo. Il messaggio della serata allora diventa quello di non aspettare che qualcuno ci porti al naufragio, ma che ognuno lavori per costruire il proprio timone e tracciare la propria rotta. Perché se leader si nasce, Boss si diventa!

martedì 16 aprile 2013

The Winnemucca Road

Venerdì 12 aprile è cominciata l’avventura di The Winnemucca Road, un duo acustico composto da me e da Federico Rama. Entrambi suoniamo la chitarra, in più io canto e suono l’armonica.
Il nostro repertorio comprende i migliori risultati di songwriters come Bruce Springsteen, Bob Dylan e Neil Young, di artisti country come Johnny Cash e Willie Nelson, di bluesman come Eric Clapton, J.J. Cale, Robert Johnson e Muddy Waters, di gruppi come Rolling Stones, Lynyrd Skynyrd, Cream, U2, Depeche Mode.
L’altra sera abbiamo suonato alla presenza di amici e studenti presso l’associazione musicale Do You Music, in Via Plana 45 a Milano. Un luogo ospitale e amichevole in cui si trova una scuola di musica di ottimo livello.
Federico è uno degli insegnanti di questa scuola, ha studiato alla civica di Milano e conosce molto bene l’armonia jazz, ma ha il blues e il rock che gli scorrono dentro: è proprio in questa veste che si mostra all’interno del duo. Quanto a me, con The Winnemucca Road colgo l’occasione per dare forma artistica ai miei interessi principali e cioè lo studio della cultura popolare in rapporto al miglioramento personale.
Tutti i brani che eseguiamo hanno un valore storico nell’economia del rock, vuoi per i testi, vuoi per i riffs o più in generale per le musiche. Sono canzoni che ci piacciono e che affrontiamo con riverenza e passione, riarrangiando senza stravolgere, soprattutto sotto il profilo ritmico e vocale. L'altra sera abbiamo suonato 21 canzoni, iniziando con Call Me the Breeze e terminando con Sympathy for the Devil, c'è stato anche il tempo per un bis: una versione intimista di Darkness on the Edge of Town.

Federico Rama e Piero Chiappano - The Winnemucca Road
Ora abbiamo l’obiettivo di farci conoscere nei locali e presso le associazioni musicali, anche sviluppando occasioni d’incontro tematiche. Cioè, oltre al classico concerto, vogliamo mettere a punto una serie di scalette organiche che diano la possibilità di costruirci intorno un discorso per allargare l’accezione di intrattenimento musicale.
Una nota sul nome: la Winnemucca Road si trova citata in un brano country, I’ve Been Everywhere, scritto in Australia nel 1959 e poi adattato per il Nord America nel 1962 da Hank Snow, dove divenne un successo del cantante Lucky Starr. È la strada, “long and dusty” (lunga e polverosa), che porta alla cittadina di Winnemucca, nello stato del Nevada. Lunga e polverosa, ma piena di soddisfazioni come sarà la vita artistica del nostro duo, pronto per il suo never ending tour.
See ya up the road!!!

giovedì 8 novembre 2012

Springsteen & Obama - Una chitarra per due


Ladies and Gentlemen, ecco a voi un bell’esemplare di Takamine EF350MCS, una chitarra elettroacustica di produzione giapponese. La combinazione dei suoi legni, abete e acero, le permette di esibire un timbro chiaro e squillante, in grado di bucare le frequenze di un’orchestra d’archi e di emergere dal mixer in ogni situazione…
Ehi, un momento, ma cosa sta succedendo appena dietro? La chitarra non è appesa a un collo qualunque. Protegge infatti la “voce” del rock per antonomasia, quella di Bruce Springsteen, che a sua volta sta abbracciando fraternamente il riconfermato presidente degli Stati Uniti, Barack Obama (la foto in realtà è stata scattata pochi giorni prima della rielezione). Qui importa il fatto che siamo di fronte a due talenti puri della comunicazione, nel senso che è evidente per chiunque (anche ai loro detrattori) che questi signori sanno farsi ascoltare senza alzare i toni, accompagnando i contenuti con elementi paraverbali e non verbali assolutamente coerenti. E fin qui, dal punto di vista di chi osserva i processi comunicazionali, siamo nel regno dell’ovvio, nel senso che Springsteen e Obama non sono i soli a comportarsi così, ma probabilmente oggi sono i più bravi in circolazione.
E qui sta il punto: perché?
A mio parere Springsteen e Obama  sono utili per demolire tutte quelle fantastiche prospettive di formazione mordi-e-fuggi che fanno leva sul ricalco e sullo studio pseudoscientifico del comportamento. Innanzitutto perché nella loro comunicazione il puro messaggio è pregnante, archetipale (etica laica della compassione, accoglienza, speranza, guardare avanti, We Shall Overcome) e tutt’altro che secondario, in secondo luogo perché le canzoni dell’uno e i discorsi dell’altro sono costruiti secondo le più rigorose leggi del rispettivo mestiere (leggi che si imparano con un’assidua pratica e al prezzo di tante ingenuità e passi falsi). Questi due elementi, messaggio e costruzione del messaggio, sorretti dal carisma e dal physique du rôle, conquistano l’eccellenza in termini di estetica e di efficacia.


In definitiva, non si diventa bravi comunicatori solo studiando comunicazione e men che meno facendolo in quegli ambienti dove ai contenuti si assegna un’importanza marginale.
Ecco i miei consigli.
Per prima cosa bisogna imparare bene il proprio mestiere, cioè bisogna essere competenti in quello che si fa, senza pensare di affidare alla cosmesi dell’affabulazione il vuoto pneumatico dell’espressione.
Poi bisogna chiedersi quale valore aggiunto una buona comunicazione può portare alla propria mission, vale a dire cogliere il discrimine tra comunicazione intesa come parte integrante e necessaria del lavoro e comunicazione intesa come self marketing.
Infine bisogna imparare a fare i conti col sano piacere misto al senso di sfida che si vive davanti a un pubblico che riceve in presa diretta il nostro messaggio.
Questo terzo aspetto, decisamente psicologico, è particolarmente delicato ed è spesso la cartina di tornasole di un evento di comunicazione perché implica un costante e forte senso di autoanalisi e autocensura onde evitare che un’occasione propizia per lasciare il segno trascenda in un’esibizione di dissociazione narcisistica. Bisogna inoltre stare attenti a non scambiare una vittoria in un contraddittorio o una performance particolarmente applaudita per un successo assoluto: la comunicazione è realmente vincente solo quando protrae i suoi effetti sul lungo periodo. In tutti gli altri casi si tratta solo di manipolazione.

giovedì 27 settembre 2012

Jack of All Trades - Bruce Springsteen

Quando ha scritto Jack of All Trades, Bruce Springsteen aveva in testa la voce e la musica di Elvis Presley e di Johnny Cash, quanto al testo però non ha avuto bisogno di riferimenti storici. Siamo infatti di fronte a una canzone d’amore che racconta del presente. Un uomo parla alla sua donna in modo franco e diretto: non ha orizzonti di gloria da illustrarle né terre promesse in cui condurla. Può darsi che il futuro sarà migliore, ma a guardarsi intorno non sembra sia il caso di fare grandi progetti:

Il banchiere diventa sempre più grasso, il lavoratore diventa sempre più magro
È tutto già accaduto in passato e accadrà di nuovo
Accadrà di nuovo, ci scommetteranno la tua vita.

Il protagonista non è un seduttore né quello che si direbbe un “buon partito”: è solo un uomo comune che non si vergogna di essere tale e pensa che dare amore significhi offrire se stessi con tutta la semplicità di cui si è capaci:

Taglierò il tuo prato, pulirò la tua grondaia dalle foglie
Riparerò il tuo tetto per tenere fuori la pioggia
Prenderò il lavoro che Dio mi dà
Sono un tuttofare, tesoro, staremo bene.


Ecco il punto: è un uomo per tutti i mestieri, un tuttofare, un factotum. Secondo i canoni dell’iperspecialismo contemporaneo è una figura ingenua e tapina, che non ha saputo prendere una decisione definitiva sul suo percorso professionale.
Proviamo però a modificare il punto di vista: che fine stanno facendo oggi tutti quelli che si sono fatti dire dal sistema in cosa era più prestigioso laurearsi, in quale settore era più opportuno impiegarsi? A qualcuno (e quasi mai per merito) è andata bene, ma tanti si sentono ingannati. Giovani avvocati, architetti, psicologi: quanti di loro hanno realizzato le aspettative di reddito per le quali si sono impegnati nel regolare corso scolastico? Quelli che hanno fatto i master in Risorse Umane poi, come la mettono con l’ordine perentorio di tagliare il personale che sta rimbalzando da un’azienda all’altra più rapido e leggero di una pallina da ping pong?
E per favore lasciamo stare la deontologia professionale: viviamo nell’era dell’autoinganno, dove per avere soldi e potere si deve partecipare attivamente al grande gioco della menzogna e del cinismo (pubblico o privato, non fa differenza). Ma se a 30 anni hai la scusa che ti devi fare le ossa e un paio di cazzate te le perdonano tutti, a 40 sei una merda bella e buona.
E allora il tuttofare di Springsteen ci svela il suo significato: è un uomo libero, che è cresciuto libero e resterà libero, perché evidenzia che la sua scelta di vivere in seconda fila non corrisponde a una rinuncia alle responsabilità. Anzi, nella sua schiettezza risulta essere incredibilmente pratico e sicuro dei suoi valori:

Usi ciò che hai e impari ad arrangiarti
Prendi ciò che è vecchio e lo rendi nuovo
Se avessi con me una pistola, troverei i bastardi e gli sparerei a vista
Sono un tuttofare, staremo bene.

E il messaggio arriva in tutta la sua luce:

Soffia un uragano, porta con sé una pioggia battente.
Quando il cielo blu si fa largo  nel temporale
E sembra che il mondo debba cambiare,
Inizieremo a prenderci cura l’uno dell’altro, come Gesù ci ha detto di fare
Sono un tuttofare, staremo bene.

Tra il cortigiano e il tuttofare, io scelgo il secondo.

venerdì 22 giugno 2012

You are fucking die hard!!!

“Siete fottutamente duri a morire!”. Sono le parole  con cui Bruce Springsteen ha apostrofato i 43.000 spettatori dell’Artemio Franchi di Firenze domenica 10 giugno 2012, più o meno alle 23,30 e appena prima di introdurre le ultime due canzoni del suo concerto: Twist and Shout e Who’ll Stop the Rain. Sì, perché quella sera ha iniziato a piovere alle 20,35 (appena conclusasi Badlands, la canzone che ha aperto lo show) e ha smesso alle 00,15: giusto per prendere l’acqua fino all’albergo.  Un concerto speciale, non solo perché, dicono i fiorentini, di solito quando piove non ne viene giù così tanta, ma perché è come se lo show fosse durato un intero weekend. Di fatto, molti fan sono arrivati venerdì (non pochi di loro reduci dal concerto di Milano) e non hanno perso l'occasione per colorare la città di magliette, tatuaggi, cori inneggianti al più grande comunicatore vivente. Perché il popolo di Springsteen è particolare: non ama solo il cantante, ama l’uomo. E c’è un motivo: è l’unico personaggio pubblico in grado di spiegarti come sia possibile trovare la gioia in fondo a un secchio pieno di buchi. Con la sua poetica di pneumatici bruciati ti porta dritto nell’inferno della vita, ma ti spiega che non sei solo e che non sei lì per rimanerci.
C’è come un vento che ti arriva dal palco: può essere soffocato come le note stirate di un’armonica o poderoso come un assolo di sax, ma in ogni caso è un vento che ti mette le ali (altro che RedBull!) e ti porta fino alla luce, fino al calore del sole, che brucia per tutti ma scalda solo chi le cerca intensamente. Questo è il messaggio ricorrente dei testi di Springsteen: lottare per uscire dalla mediocrità, e farlo con le proprie forze, senza cercare espedienti, e con l’aiuto di tutti quelli che riconosciamo come fratelli.
Gratitudine, passione, reciprocità: sono le prime parole che mi vengono in mente. Insieme a quella che Kant avrebbe definito la sensazione del “sublime”: un evento di fronte al quale per un attimo ci sentiamo piccoli, ma che subito dopo ci scoppia dentro come un’esplosione di salute e di felicità. E si comincia ad apprezzare tutto, a dare valore agli istanti, a tollerare le differenze e le distanze.
È un tuffo nell’istinto che non ha bisogno di additivi strani, un invito a fare comunità che forse è la missione più alta del rock & roll. E se mentre ascolti Born to Run salti a tempo con gli altri 43.00 tenendo per mano tua moglie in uno stadio illuminato dallo smalto dai sorrisi beati di gente di tutte le nazionalità, beh, hai fatto una cosa che ti rimarrà inpressa per tutta la vita e hai come la sensazione di far parte di un progetto di cui sei anche tu responsabilmente protagonista: darci dentro perché questa società smetta di fare così pena a se stessa e trovi la forza di ripartire dalle cose semplici e vere, che poi è quello che chiamiamo amore. Nel rock non c’è retorica, c’è solo vita.

Paola "fucking die hard" Chiappano

mercoledì 30 maggio 2012

Musicamanetta - showcase

Venerdì 25 maggio sono stato ospite dell’associazione musicale Musicamanetta di Milano (Via dei Carracci, 10) nell’ambito di un ciclo di incontri relativi alla presentazione di libri di saggistica e narrativa. Ho tenuto uno showcase di un’ora e mezza durante il quale ho parlato del mio libro Manager Songbook. Per attualizzare e contestualizzare la presentazione, ho pensato di rileggere i temi del libro attraverso canzoni di Bruce Springsteen: da un lato perché parte del libro parla di lui, dall’altro perché mi sembrava, da fan, un modo carino per presentare il suo “avvento” in quel di Milano (7 giugno, Stadio San Siro). Così, accompagnandomi con una Gibson SJ 200 del 2002, ho introdotto i capitoli del libro suonando alcune canzoni del Boss riarrangiate in versione acustica.
Osservazione della realtà. Stiamo attraversando tempi di precariato e incertezza: The Ghost of Tom Joad, canzone che parla della grande depressione americana degli anni Trenta, ritorna molto attuale.
Potere. Le dinamiche di relazione basate sull’autorità e le tentazioni che colgono chi perde il senso del limite trovano sfogo in Badlands.
Responsabilità. Riflettere sui propri doveri e prendersi cura delle risorse affidate portano alla mente il testo di If I Should Fall Behind.
Trappola organizzativa. Il lavoro può ferire fisicamente e moralmente, divenendo una prigione che instilla sensi di colpa e dipendenza. Canzone scelta: Factory.
Autodisciplina. Preparazione, aggiornamento e umiltà fanno il manager e l’uomo. Canzone: No Surrender.
Fiducia. Credere in se stessi come unica via per superare crisi di significato e ostacoli organizzativi trova rappresentazione in This Hard Land.
Il brano di apertura è invece stato Born in the U.S.A., eseguito secondo la versione del provino originale (tonalità in minore). Scelto come brano simbolo per parlare della generazione degli anni Ottanta nonché canzone di apertura del primo concerto del Boss in Italia (Milano, 21 giugno 1985).
Al termine dello showcase, rinfresco e brindisi.
Grazie allo staff di Musicamanetta e alla loro gentile ospitalità. Invito i lettori a collegarsi al loro sito (http://www.musicamanetta.it/) per consultare i programmi di eventi e i corsi di strumento e voce che regolarmente vi si tengono.

mercoledì 28 marzo 2012

La magica riforma del lavoro

Il bailamme scatenato intorno alla prossima riforma del lavoro ha permesso agli italiani di familiarizzare, seppur in modo confuso, coi termini tecnici del diritto giuslavoristico: apprendistato, articolo 18, assicurazione sociale per l’impiego, giusta causa, discriminazione, ecc.
Le battaglie di principio, le rendite di posizione, il protagonismo politico hanno però condizionato il dibattito mediatico al punto da impedire ai non addetti ai lavori una disamina oggettiva delle posizioni in campo.
Ciò che si può osservare a grandi linee e senza timore di polemica è che agevolare (qualunque siano i paletti definitivi della riforma) la dismissione delle risorse umane dalle aziende non solo non ha nulla a che fare con la creazione di altri posti di lavoro (se posso licenziare per poter assumere, al limite il conto si azzera e in ogni caso non sale), ma si dimostra un ragionamento a tavolino, da biblioteca, incurante di una specifica realtà italiana che, a differenza di altre nazioni europee di cui si vuole imitare il modello, soffre di una grave malattia: l’assenza di meritocrazia.
È prassi comune nelle grandi aziende, una volta uscite dalle fasi di start up e consolidamento, livellare verso il basso le competenze medie delle risorse umane per tenerle in scacco (leggi: precariato esistenziale)  attraverso un meccanismo bipolare che non è quello dell’efficiente / inefficiente e nemmeno quello del produttivo / improduttivo, ma quello del molto più svilente utile / inutile. Ma, attenzione, utile / inutile per chi? Forse per “il bene dell’azienda”? No, e neanche dell’azionista. Più semplicemente: per il manager che sta sopra l’impiegato.
La meritocrazia in Italia si riduce a questo: compiacere il capo. Se si condivide questa lettura si fa presto a capire che, prima di parlare di licenziamenti a raffica di operari cinquantenni (con conseguente ricaduta macroeconomica spaventosa), bisognerebbe parlare del destino di quei manager che hanno stabilito di impiegare i suddetti operai in linee di produzione ronzinanti. Che colpa ne ha Cipputi se il suo stabilimento viene destinato alla produzione di un’automobile talmente brutta e senza appeal di mercato che nessuno comprerà mai?
Ecco, in questo caso la riforma del lavoro non agirebbe sulla causa (cioè la rimozione del manager delegato alla strategia), ma sugli strumenti della causa (gli operai) che hanno avuto la solo colpa di eseguire decisioni altrui. Insomma, il vero responsabile non paga mai, anzi spesso con una mano partecipa alla distribuzione dei dividendi mentre con l’altra schiaccia i bottoni che nel giro di qualche anno manderanno a puttane l’azienda.
Quando si parla di mercato del lavoro, dovrebbe essere chiaro che di casta sentenziante non c’è solo quella dei politici, ma anche quella, più furbescamente defilata, dei manager d’azienda. I quali, diciamolo francamente, hanno come principale e a volte unico obiettivo perpetuare i loro privilegi, alla faccia di azionisti, dipendenti, clienti (e il sistema glielo consente!).
Non si è mai vista una squadra di calcio non performante in cui l’allenatore può cacciare tutti i giocatori “per motivi economici” e rimanere saldo al suo posto sine die, col presidente che mette i soldi e lascia fare. Eppure, è proprio quello che nelle aziende già accade e ancor più facilmente potrebbe accadere.
Siamo seri: prima di riformare il lavoro, si riformino le aziende.


Viviamo in un mondo di specchi deformanti, di giochi di prestigio maldestri, di sorrisi protesici, dove la cosa più vera in cui capita d’imbattersi è la tintura dei capelli di gente con poca vergogna e niente dignità.
Bruce Springsteen non ha usato mezze misure quando nel 2007 in Magic ha scritto:

      Non fidarti di quello che senti
      E ancor meno di quello che vedi

Per concludere così:

      Il sole sta calando sulla strada
      Mentre corpi pendono dagli alberi
      Questo è quello che sarà
      Questo è quello che sarà.

Àscari benpensanti aziendalmente corretti astenersi, grazie.

mercoledì 14 dicembre 2011

Musica rock e customer experience

Ormai da alcuni anni consulenti e formatori aziendali invitano la popolazione aziendale ad appropriarsi del concetto di customer experience, che rispetto al customer service porta a una serie di approfondimenti significativi. Se nella concezione consueta ci si concentra su come si eroga una prestazione, con la customer experience si crea il focus su ciò che il cliente prova mentre sperimenta il servizio. È infatti l’esperienza a determinare il valore di un servizio, non il servizio in sé: lo stesso caffè bevuto in una stazione ferroviaria e in piazza San Marco a Venezia avrà un prezzo sensibilmente diverso proprio perché i contesti ispirano contenuti differenti, con l’approvazione del cliente che è spontaneamente portato a cogliere e giustificare la differenza tra valore d’uso di un bene/servizio e suggestività del vissuto.
Detto questo, possiamo arrivare a definire la customer experience come la capacità di un’azienda di coinvolgere emotivamente il cliente facendogli vivere un’esperienza che sia personalizzata, memorabile, di cambiamento. Quanto più questi concetti saranno sviluppati e tanto più il valore giustificherà il prezzo.
I musicisti rock sono stati tra i primi a capire l’importanza della customer experience, pur senza bisogno di apparati teorici.
Perché un concerto rock può permettersi di costare anche più di dieci  volte il prezzo di un greatest hits? Perché soddisfa esigenze diverse. Se infatti nel caso della compilation si appaga la percezione estetica, nel caso del concerto si crea un contatto quasi fisico col pubblico che rende il momento unico, da ricordare, tramandare e associare a un particolare momento di vita e spesso crea la forte sensazione di uscirne rigenerati e trasformati. In più il concerto rock assume il significato di testimonianza aggregativa di una comunità che si riconosce in determinate linee di comportamento e di condivisione di valori, confermando identità e appartenenza. Non sorprende quindi che proprio i musicisti rock abbiano fatto passi in avanti in questa direzione.
Bruce Springsteen ad esempio, accorgendosi dei tanti fan che portavano i bambini ai concerti tenendoli sulle spalle, ha avuto l’idea nel corso dei tour dell’ultimo decennio di farne salire sul palco uno ogni sera per cantare una strofa di Waitin’ on a Sunny Day.


Similmente gli U2 nel corso del loro 360° Tour (2009-2011), hanno più volte ospitato sul palco fan che dalle prime file esponevano un cartello con scritte del tipo: “May I play your guitar?”. Bono, tra lo stupore e l’invidia generale, consegnava la sua preziosissima Gretsch verde metallizzato al fan che accompagnava il cantante in All I Want Is You o in altre ballad .


Un esempio di carattere diverso, ma sempre legato alla customer experience, riguarda l’idea di alcuni produttori di chitarre come Fender e Gibson di realizzare modelli famosi con specifiche modifiche dettate  da guitar heroes e accompagnati dal loro autografo serigrafato o inciso sulla tastiera ( i cosiddetti modelli signature). Questo per far sì che l’aspirante chitarrista viva più intimamente il feeling coi suoi modelli stilistici di riferimento, avvicinandosi alle loro sonorità e al loro approccio allo strumento.

Fender Stratocaster John Mayer signature
Un’altra nota può riguardare la catena internazionale di pub Hard Rock Cafe: qui la consumazione tradizionale diventa un pretesto per sentirsi proiettati in un mondo alternativo creato grazie ai memorabilia rock, che realizza un considerevole upselling con le t-shirt indicanti il logo e il luogo dell’acquisto.

lunedì 20 giugno 2011

Clarence "Big Man" Clemons

Il sassofono del rock, Clarence “Big Man” Clemons, non suona più. Se ne è andato, portandosi via quel soffio caldo e profondo, così personale e unico.
Con le note sapeva accarezzare e colpire duro, gigante buono e protagonista di un fatto eccezionale: aver portato nel rock il valore dell’amicizia.
La vicenda è nota. Chi nel 1975 acquistava una copia di Born to Run si trovava tra le mani una foto di  Bruce Springsteen sorridente, appoggiato a una spalla alta come una montagna. Per vederci più chiaro bisognava aprire la copertina, ed ecco che sul dorso appariva lui, Big Man, sassofono in bocca, occhi verso la camera.
Un disco sull’amicizia, dichiarerà Springsteen, rivelato fin dalla copertina. Un disco sulla gioventù, sul sogno, sulla fratellanza, sul potere della condivisione, in magico equilibrio tra l’anima nera del rhythm & blues e quella bianca del rock & roll.
A tanti quel disco ha cambiato la vita perché nel suo messaggio e nella sua storia c’è ancora oggi il mondo a cui tutti gli amanti del rock vorrebbero appartenere, ma è anche un esempio di come l’amicizia sul lavoro abbia pieno diritto di cittadinanza, di come l’amicizia coltivi gli entusiasmi, ripari le delusioni, accompagni i ripensamenti, sostenga gli sforzi.
Bruce e Clarence si conobbero nel 1971, quaranta anni dopo si sono lasciati. Il destino, niente altro, tutto ha una fine. Ma se c’è qualcosa che forse la musica può fare è quello di dare un calcio in culo alla morte. Perché i suoni rimangono e, se è facile copiare le note, è impossibile rifarle a quel modo. Così il ricordo rimane vivo e splende alto.
Arrivederci paradiso sconfinato di Jungleland
Arrivederci carambola epica di Thunder Road
Arrivederci autostrada libera di The Promised Land
Arrivederci voglia di vita di Out in the Street
Arrivederci dolcezza di luna di Drive all Night
Arrivederci energica malinconia di Bobby Jean
Già, Bobby Jean, un'altra canzone sull’amicizia, lì a ricordarci che diventare uomini vuol dire anche accettare il rimpianto di ciò che non tornerà più. In quel pezzo il sax arriva alla fine, non come un assolo, ma come un fatto necessario e quella nota lunga che si sente mentre il volume sfuma è oggi il suono della nostra tristezza, che è il grido di dolore e di rispetto di chi nella musica rock ci trova un senso e, grazie a musicisti come Clarence “Big Man” Clemons, ce lo troverà sempre.

La copertina di Born to Run

domenica 12 dicembre 2010

Innovazione e musica popolare americana - 3

Un’ulteriore prova di rivoluzione nella continuità nella musica popolare di cultura anglosassone si può apprezzare nella gestualità simbolica di molti musicisti e acquista significato nella misura in cui non si presenta come imitazione, ma come tributo e riferimento culturale. Prendiamo il caso della chitarra elettrica suonata dietro la testa. Sono ben note le performance virtuosistiche di Jimi Hendrix: ebbene anche su internet è possibile rintracciare una foto di T-Bone Walker che risale almeno a due decenni prima in cui il seminale elettrificatore del blues si esibisce nella stessa prassi. Più di recente sarà lo sfortunato texano Stevie Ray Vaughan a rinnovare il gesto nel segno della continuità.
Sempre lo stesso Vaughan si peritò talvolta nel fumare la pipa durante le svisate in segno di tributo al suo maestro Albert King.
Vecchi filmati ci mostrano il giovane Springsteen ricordare irresistibilmente le performance on stage di James Brown e Van Morrison (pare che quest’ultimo negli anni Settanta si risentì della cosa).
La sigaretta accesa incastrata nella paletta della chitarra elettrica, gesto imitato da molti chitarristi (anche amatoriali), è ben noto come marchio di fabbrica di Eric Clapton negli anni Settanta, ma  i filmati tratti dal festival di Woodstock (1969) già ci mostrano il bassista dei Canned Heat in analoga prova.
Su Youtube circola un filmato bellissimo intitolato Origins of the Moonwalk dove si può capire senza ombra di dubbio che il lavoro coreografico di Michael Jackson, lungi dall’essere un parto individuale, corrisponde in realtà a un talentuoso riuso di materiale tradizionale (ma a proposito del moonwalk si veda anche il balletto di Charlie Chaplin mentre improvvisa in Tempi Moderni la cosiddetta “canzone senza senso”).
Lo stesso ancheggiamento di Elvis Presley non era più che l’imbiancatura di movenze tipiche degli spettacoli di piazza dei musicisti e intrattenitori di colore (forse per questo un film a suo modo storiografico come Forrest Gump imbastisce la gustosa scena in cui, ripreso di spalle, un giovane dal capello impomatato e non ancora famoso strimpella Hound Dog mentre il piccolo Forrest gli balla davanti con le gambe imbragate nei sostegni ortopedici).
Il noto segno delle corna fatto con pollice indice e mignolo, che dall’iconografia rock si è oggi esteso a cenno di saluto tra persone che si riconoscono in una precisa way of life, può essere fatto risalire a John Lennon e al film Yellow Submarine.
Per non parlare dei vari Pete Townsend, Kurt Cobain, Jimi Hendrix, Paul Simonon, Ritchie Blackmore, Yngwie Malmsteen e tanti altri che hanno bruciato o sfasciato gli strumenti sul palco.
E non si può certo dimenticare il celeberrimo duck walk  di Chuck Berry, riproposto pedissequamente venti anni dopo da Angus Young degli AC/DC.
Piacciano o non piacciano, questi gesti si iscrivono in una tradizione e suonano come innovativi solo quando vengono proposti a target allargati e a nuove generazioni. Proprio in quest’ottica questi gesti possono insegnare qualcosa ai manager nei casi di riposizionamento di un brand o di una linea di prodotto. Se ci si limita a una massiccia campagna di comunicazione e promozione senza un richiamo al passato si corre il rischio sfruttare l’effetto moda e quindi di avere forti ritorni nell’immediato, ma con poca consistenza nel tempo. Non credo ad esempio che la nuova Mini, la nuova 500 e la nuova Vespa abbiano reso in base alle aspettative (sembrano già operazioni commerciali datate e Moncler e Timberland, marchi oggi tornati in auge, rischiano forse la stessa sorte), un marchio come Fred Perry invece ha saputo radicarsi potentemente nei nuovi mercati proprio perché nel selezionare target e punti vendita ha tenuto conto della sua storia.
Chuck Berry si esibisce nel duck walk, uno dei gesti più imitati della storia del rock

martedì 2 novembre 2010

Leo Fender e la chitarra elettrica solid body - 1

Leo Fender è stato il più importante progettista e costruttore di chitarre elettriche del XX secolo. A lui spetta il merito di aver trovato il modo di industrializzare la produzione di chitarre elettriche a corpo solido (solid body).

Nel secolo scorso l’evoluzione tecnica della chitarra così come il suo mercato di riferimento ha seguito passo a passo le esigenze dei musicisti. Le accresciute dimensioni delle sale da concerto e da ballo, l’impiego di organici strumentali sempre più vasti e fragorosi, l’assuefazione a nuovi ritmi e a nuove acustiche prodotte dall’urbanizzazione avevano gradualmente condotto la chitarra verso l’elettrificazione, vale a dire la trasformazione del suono mediante applicazione di un magnete avvolto in un filo di rame (pickup) a sua volta collegato mediante un cavo elettrico a un apparato di amplificazione. La semplice collocazione del pickup in prossimità della buca della cassa di risonanza piuttosto che in uno scasso praticato nella tavola armonica delle chitarre archtop (quelle con due buche a f simili alle casse armoniche dei violini) non risolveva però il grande problema dei concertisti: il cosiddetto feedback acustico, un fischio incontrollato e ingestibile provocato dall’innesco della cassa dello strumento con amplificatori e microfoni. In pratica nel bel mezzo di un’esecuzione la chitarra cominciava a fischiare devastando la purezza dei suoni.
Sul finire degli anni Quaranta per risolvere il problema Paul Bigsby progettò una chitarra a corpo solido (cioè senza la cassa, sostituita da un blocco di legno massiccio) per il musicista country Merle Travis, ma il complicato processo costruttivo non andò oltre la realizzazione del prototipo. Solo poco tempo dopo Leo Fender, facendo tesoro del lavoro di Bigsby, si applicò alla realizzazione di un modello destinato a rivoluzionare la pratica e l’estetica della chitarra elettrica: la Fender Telecaster. La cassa estremamente spartana (qualcuno per dileggio la paragonò a una pala per la neve!), il manico avvitato alla cassa, i tasti  conficcati sulla tastiera a sua volta direttamente ricavata dal manico, la circuitazione elettrica comodamente allocata appena sotto il battipenna, le meccaniche posizionate tutte sullo stesso lato della paletta: tutte caratteristiche che rendevano molto semplici e serializzabili non solo le fasi di assemblaggio dello strumento, ma anche quelle di uso e manutenzione.
Nel volgere di pochi anni la Fender Telecaster (nata col nome di Esquire con un solo pickup in prossimità del ponte, poi Broadcaster con l'aggiunta di un secondo pickup vicino al manico, poi e per ragioni di copyright nella denominazione definitiva Telecaster) divenne un must, stabilendo un benchmark per tutti gli altri costruttori di chitarre elettriche.
A partire dal 1950 possiamo dire che le caratteristiche della chitarra elettrica sono cambiate per sempre, condizionando senza appello col loro potere di fascinazione non meno che con la loro efficacia sonora la storia della musica popolare occidentale. In particolare proprio il marchio Fender ne ha tratto un beneficio determinante, passando in pochi anni da piccolo laboratorio artigianale a multinazionale della liuteria.
Come abbiamo visto si tratta di una storia di successo legata all’innovazione. Ma ciò che in questo caso merita attenzione è che l’innovazione è generata da un mutamento radicale nell’approccio all'argomento. Fino ad allora e per secoli il concetto di chitarra sembrava non poter prescindere dal fatto che lo strumento dovesse possedere una cassa di risonanza per produrre il suono: con l’invenzione della chitarra a corpo solido invece si assiste a una vera e propria rivoluzione di pensiero perché il concetto stesso di chitarra viene reimpostato  aldilà dei preconcetti della tradizione e, partendo dalla chiara definizione di un problema, rivela che l’ingegno dell’uomo è in grado di procedere e fare la differenza ancor più attraverso potenti intuizioni non meno che per miglioramenti a piccoli passi.
Questo è il messaggio che Leo Fender regala a tutti i manager che, pur consapevoli che innovazione equivale oggi a vantaggio competitivo, faticano ad evadere dagli schemi consolidati e ormai inefficaci delle proprie aziende e invocano metafore semplici e convincenti per guidare il cambiamento.

La main guitar di Bruce Springsteen: risale agli anni Cinquanta ed è nata dall'assemblaggio del corpo di una Fender Telecaster con il manico di una Fender Esquire

mercoledì 29 settembre 2010

This Land Is Your Land – Woody Guthrie

Scritta nel 1940 in risposta all’ottimismo borghese di God Bless America di Irving Berlin, This Land Is Your Land si è fatta progressivamente strada nei cuori della working class americana, trasformandosi da inno patriottico studiato a scuola in masterpiece delle battaglie sociali e dei diritti civili. Ha infervorato la gioventù di Bob Dylan, trascinandolo verso la professione della musica (ascoltate la sua versione live del 1961 contenuta in No Direction Home: The Soundtrack, The Bootleg Series Vol.7, incredibilmente lenta e sofferta, ogni nota è un graffio, ogni accordo un pugno…); ha scolpito la maturità di Bruce Springsteen (cominciò a cantarla per protesta a 30 anni, all’epoca della campagna elettorale di Reegan per la presidenza USA, si trova incisa in Live/1975-85); ha conosciuto nuova vita verso la fine degli anni Ottanta per via della riscoperta della musica di Guthrie e Leadbelly da parte dello star system dell’epoca (procuratevi Folkways: A Vision Shared, con interpretazioni che vanno da Willie Nelson agli U2); ha raggiunto l’apice di notorietà grazie all’esecuzione di Pete Seeger, Springsteen e Tao Rodríguez durante la cerimonia di inaugurazione del mandato di Obama a Washingston nel gennaio 2009: una prova corale e festosa che traduce in emozioni la lotta per un ideale e rinnova il sospetto che forse la musica un po’ il mondo lo può davvero cambiare. This Land Is Your Land ha percorso le generazioni come un fiume carsico, forte di un messaggio da condividere. Il testo gioca su una contrapposizione di immagini. Nelle prime strofe si parla della bellezza dei luoghi commentati col verso

Questa terra è stata fatta per te e per me.

Improvvisamente il testo vira in negativo e si passa alla descrizione di alcune ingiustizie che sporcano l’incanto dei paesaggi:

Stavo camminando, quando ho visto un cartello
E sul cartello c’era scritto “Vietato entrare”,
ma dall’altra parte non c’era scritto niente
Quella parte è fatta per te e per me.

All’ombra di un campanile ho visto la mia gente
all’ufficio dell’assistenza sociale,
mentre loro stavano lì affamati, io ero lì che mi chiedevo
“È davvero questa la terra che è stata creata per te e per me?”

Tutto questo è molto simile a quanto si sperimenta nelle aziende: privilegi e crisi finanziarie mettono a dura prova la sensibilità di chi si sente attaccato alla maglia. Arriva un capo nuovo, si diversifica il mercato, si cambia strategia: si chiede fermezza, ma si pretende flessibilità. Si prova la sensazione che ci venga tolto quello che sentiamo nostro e un po’ è davvero così perché in fondo abbiamo contribuito a crearlo. A volte si tratta solo di un lungo temporale, altre volte di qualcosa di definitivo. A questa seconda ipotesi non c’è un vero rimedio, ma esiste una modalità di prevenzione: trovare soddisfazione non tanto nel risultato (che è qualcosa di cui comunque, esattamente come di un prodotto artistico, godranno altri) quanto nell’idea, nell’iniziativa, nell’operosità dell’azione e allora

Nessun essere vivente potrà mai fermarmi
mentre sto camminando su questa strada di libertà,
nessun essere vivente potrà mai farmi tornare indietro:
questa terra è stata creata per te e per me.

E così il nostro spazio, la nostra cifra, la nostra unicità saranno preservati.


venerdì 17 settembre 2010

Like a Rolling Stone - Bob Dylan

Springsteen ha detto che quando ha ascoltato il colpo di batteria che saluta questa canzone, è come se qualcuno gli avesse aperto a calci le porte della mente. Ma questo è solo uno dei tanti commenti lusinghieri che circonda quella che è considerata la più grande canzone rock di tutti i tempi.
Nata da una “vomitata emotiva” lunga venti pagine, poi condensata in sei minuti di canzone rock (ma nella gestazione compositiva attraversò anche una fase pianistica in ¾ molto più soft), Like a Rolling Stone stupisce sempre per la sua immediatezza e per le impietose immagini che descrive. Coverizzata un po’ da tutti – da Jimi Hendrix a Bob Marley, dai Rolling Stones agli Articolo 31 – non delude mai, tanto è potente il polmone d’energia a cui attinge.
La versione più significativa rimane forse quella registrata dal vivo il 17 maggio 1966 alla Free Trade Hall di Manchester. Dylan, accompagnato dalla Band di Robbie Robertson e Rick Danko, dilata il brano a oltre otto minuti di durata complessiva, stonando in modo così perfetto da far invidia ai futuri Sex Pistols. Durante quel tour in Inghilterra, Dylan fu criticato apertamente e in modo quasi violento. Celebre lo scambio di parole con uno spettatore. “Judas”, gli gridarono dalla platea, “I don’t believe you… you are a liar” risponde Bob e poi, giratosi verso la Band: “Play it fucking loud!”. E giù di chitarre elettriche, batteria, organo Hammond ecc.. Dylan aveva scelto: la sua musica era cambiata per sempre.
L’attacco di vomitosi del testo si riferisce a una ragazza cresciuta negli agi, abituata a non chiedere mai, semplicemente a prendere, che ha coltivato la superficialità e l’indifferenza per il diverso, guardando tutti dall’alto, sfuggente e inarrivabile (personaggio in parte rivisitato da Ligabue in Eri bellissima, 2002), ha fatto scuole raffinate, ma alla fine non faceva che spassarsela.
Ora le cose sono cambiate: la ragazza per bene è diventata Miss Solitudine, ha perso tutto, soldi e certezze, e prova l’ebbrezza dell’assenza di punti fermi:

Come ci si sente,
come ci si sente
a stare per proprio conto
senza un posto dove andare
come una completa sconosciuta,
come una pietra che rotola?

Da principessa a vagabonda dell’essere, Miss Solitudine è costretta a scendere a patti con tutti quelli di cui si prendeva gioco e cui conferiva esistenza solo per il proprio sollazzo. La ragazza non è più in condizione di scegliere niente perché a nessuno ti puoi rifiutare

Quando non hai niente, non hai niente da perdere,
ora sei invisibile, non hai segreti da nascondere.

Chi sono gli omologhi aziendali di Miss Solitudine? Quelli che sono partiti già in alto, quelli che hanno preso le “scorciatoie”, quelli che non c’entrano niente ma hanno la faccia giusta, gli emuli del Marchese del Grillo («Mi dispiace, ma io so’ io, e voi nun siete un cazzo!»), i figli e parenti di, quelli con gli stipendi gonfiati, i tesserati, i paraculi e i miracolati. Ma prima o poi la ruota gira perché nelle aziende agisce la legge della compensazione. Così Like a Rolling Stone diventa una canzone sul karma, un po' di pazienza per favore…

martedì 14 settembre 2010

The Ghost of Tom Joad - Bruce Springsteen

Procediamo con ordine: in principio fu John Steinbeck, che creò il soggetto e lo fece protagonista del suo romanzo Furore (1939); l’anno successivo uscirono l’adattamento cinematografico del libro per la regia di John Ford e quello musicale ad opera di Woody Guthrie (la ballata intitolata Tom Joad); nel 1995 il secondo album acustico della carriera di Bruce Springsteen sarà trainato da un brano venuto fuori dalle trincee della coscienza, The Ghost of Tom Joad, che darà il titolo all’intero lavoro.
La storia di Tom Joad si svolge al tempo della Grande Depressione ed è la storia di tanti eroi sconosciuti che non chinano la testa di fronte al sistema che ha generato la loro miseria. Bruce riambienta la vicenda ai tempi nostri: lo spettacolo esibito agli occhi di un emigrante degli anni Novanta non è poi così diverso da quello che toccava in sorte a un Okie degli anni Trenta. Anche perché il vero paesaggio è quello interiore e i chiaroscuri dell’animo umano sono sempre gli stessi, resi forse più malinconici dalle proporzioni planetarie del fenomeno e dal fallimento di quello che qualcuno si ostina ancora a chiamare progresso:

Benvenuti nel Nuovo Ordine Mondiale,
nel sud est ci sono famiglie che stanno dormendo nelle loro auto,
niente casa, niente lavoro, niente pace, niente riposo.

Così il protagonista della canzone si accovaccia davanti al fuoco e, inseguendo le morbide lingue lucenti che si innalzano al cielo, cerca il fantasma di Tom Joad mentre ricorda le parole con cui quest’ultimo si congedò dalla madre:

«Mamma, dovunque c’è un poliziotto che sta picchiando un ragazzo,
dovunque c’è un neonato affamato che piange,
dove c’è una battaglia contro il proprio sangue e c’è odio nell’aria,
cercami mamma, io sarò lì.

Dovunque c’è qualcuno che sta lottando per un posto dove stare
o un lavoro decente o una mano che l’aiuta,
dovunque qualcuno sta combattendo per essere un uomo libero,
guarda nei suoi occhi, mamma, e mi vedrai».

È una canzone sui diritti civili, viene da dire, ma forse è qualcosa in più: descrive una scelta, un biglietto di sola andata, una patto con se stessi ed è anche un monito per tutti quelli che nelle aziende vedono il valore "giustizia" subire le offese di qualche capetto prepotente e lasciano che l'indifferenza seppellisca l'indignazione. Sicuramente è una canzone da ascoltare al buio: la chitarra sembra registrata due stanze più in là, la voce sembra farsi largo come un piccolo ragno tra le assi del parquet e l’armonica, beh, se l’anima ha un suono, penso sia proprio quello che si ascolta qui dentro.

lunedì 13 settembre 2010

Land of Hope and Dreams – Bruce Springsteen

Questa canzone viene pubblicata da Bruce Springsteen nell’album Live in New York City (2001) ed è documentata anche da un dvd ufficiale. È una canzone bipartita: la prima tranche si svolge sul tipico incedere della ballata rock (strofa-ritornello-strofa-ritornello), poi la canzone vira su un accordo in minore e strizza l’occhio al gospel, suggestionando il pubblico attraverso i cori della E Street Band. Springsteen, in grande forma vocale, prende spunto da uno spiritual tradizionale intitolato This Train Is Bound for Glory inciso da vari artisti tra cui Woody Guthrie e Big Bill Broonzy, ma se in quel caso il treno che viaggia verso la gloria celeste trasporta solo persone immacolate (niente ladri, speculatori, ubriaconi, bugiardi, imbroglioni ecc.) nel brano di Springsteen il treno diventa metafora del viaggio terreno e allora ecco che

Questo treno
Porta santi e peccatori
Questo treno
Porta perdenti e vincitori
Questo treno
Porta puttane e giocatori d’azzardo
Questo treno
Porta anime perdute.

Ma siamo al cospetto di una canzone ottimista perché si tratta di un viaggio verso la redenzione. E difatti su

Questo treno
I sogni non saranno frustrati
Questo treno
La fede sarà ricompensata.

Anche le aziende sono piene di santi e peccatori, perdenti e vincitori, donne di malaffare e persone senza scrupoli. Fa parte del gioco. Ma in azienda siamo tutti accumunati delle stesso destino: quello di passare. E allora non ci resta che decidere che tipo di segno lasciare. Quello dipende solo da noi.

sabato 11 settembre 2010

This Hard Land – Bruce Springsteen

Notizie dalla prateria: anche il Boss protegge i suoi tesori. Questa canzone risale al 1982, ma Springsteen la mantiene inedita fino al 1995, anno in cui la pubblica nel Greatest Hits in una seppur molto fedele nuova versione (il first cut si può ascoltare in Tracks del 1998). Compiendo un sacrilegio agli occhi dei fan perché si tratta in assoluto di uno dei suoi pezzi più belli.
La musica sembra uscita dalla penna di qualche folksinger itinerante americano di metà secolo – la voce bruciata dalla sabbia delle pianure texane – e distilla in tre accordi uno schema che si ripete e si vorrebbe non finire mai. Gli assoli di armonica sono un invito alla danza (quella dei saloon con cappelli, stivali e speroni) e qui si rimane sorpresi: perché Springsteen sembra celebrare la gioia della vita scomoda e del lavoro duro. Comincia il testo:

Hey signore, puoi dirmi
cosa è successo ai semi che avevo seminato?
Puoi darmi una ragione, signore,
sul perché non siano mai cresciuti?

E poi via con una collezione di difficoltà e insuccessi lavorativi che capitombolano tutti su «questa dura terra» di cui ci sembra di subire l'acredine e le increspature. Alla fine però tutto si riassume in un messaggio da tatuaggio che sfrega il cuore o da bandiera che ha attraversato mille battaglie:

Stay hard, stay hungry, stay alive.

Tieni duro, resta affamato, mantieniti vivo perché alla fine si tratta dell’unica terra che ti è stata data ed è proprio su di essa che ti devi giocare la vita. Così anche la fatica diventa un dono o, se preferisci, la più grande opportunità per capire chi sei.

Speranza e sogni in Manager Songbook

Rovistando tra le pieghe del mio libro Manager Songbook ho trovato queste frasi che descrivono come la penso a proposito delle parole che intitolano il mio blog.

Così mi esprimo a proposito della speranza:
“Rinunciare a sperare è come sottoscrivere una morale da schiavi, dove si starà anche in buona compagnia con la maggior parte della popolazione, ma dove la catalessi della creatività e l’accettazione acritica di un modello dominante finiranno col procurare una solitudine esistenziale ben più grave di quella avvertita durante il libero volo dell’aquila che portiamo nel petto” (p.158).
E così a proposito dei sogni:
“È preferibile il muto dolore di un sogno che non si avvera al non aver sognato mai. È un’inquietudine positiva quella di non sapersi accontentare, perché obbliga a stare desti, affamati, vivi. Dove c’è qualcosa che merita di essere migliorato ci deve essere un sogno, e tutto si può migliorare. Non la vita è sogno, ma il sogno è vita…” (p.176).

Qualche canzone da riascoltare?
Badlands, The Promised Land, This Hard Land, Land of Hope and Dreams tutte di Bruce Springsteen
We Shall Overcome di Pete Seeger
Blowin’ in the Wind, I Shall Be Released di Bob Dylan
A Change Is Gonna Come di Sam Cooke
(I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones
Redemption Song di Bob Marley
Pride (In the Name of Love) degli U2

mercoledì 8 settembre 2010

Manager Songbook - Piero Chiappano - 2010

Nel luglio del 2010 ho pubblicato il libro Manager Songbook. Rock e canzone d'autore per migliorare l'azienda (Edizioni de Il Sole 24 Ore). In questo libro filtro i temi del lavoro e delle multinazionali attraverso il setaccio della musica rock e della canzone d'autore. Testi famosi e vicende di artisti vengono presi a modello per descrivere vizi, virtù e competenze manageriali allo scopo di creare consapevolezza e responsabilità in chi dirige le aziende. Il libro dedica una digressione alla generazione degli anni Ottanta (che è anche la mia) e sottolinea come certa musica abbia svolto un ruolo più formativo in termini di strutturazione dei valori di quanto non abbiano saputo fare gli attori istituzionali. Si può diventare manager migliori grazie a Springsteen, Dylan, Johnny Cash, Battiato, Vasco Rossi, Ligabue, Tenco, Gaber, Jannacci, De André, Tiromancino, Fossati, Carmen Consoli, Ruggeri, Vecchioni, Bennato, De Gregori? Io credo di sì e - da fan, ex musicista, formatore aziendale - provo a raccontarlo con le mie parole. La prefazione è di Franco Mussida, grande musicista e grande uomo, che mi ha onorato della sua conoscenza e frequentazione.