La vicenda è nota. Robert Johnson, collettore per eccellenza di tecnica e temi del Delta blues, maestro di sintesi compositiva e di esecuzione chitarristica, nel novembre del 1936, nella stanza 414 del Gunter hotel di San Antonio (Texas), registra una manciata di canzoni destinate a gettare le basi internazionali del rock’n’roll. Cross Road Blues è una di quelle canzoni: diventerà un classico col titolo Crossroads nell’interpretazione dei Cream del 1968 (dall’album Wheels of Fire), una registrazione live che stravolge l’arrangiamento originario, imprimendovi un riff che per sonorità e intensità traghetterà la musica popolare dal rock blues all’hard rock.
Sul testo di Crossroads si è favoleggiato a dismisura, per via del fatto che, come vuole la tradizione del Mississippi, proprio ai crocevia di notte si potesse incontrare il diavolo per stringere patti con lui. Qui in realtà è tutto molto più terreno e di sulfureo non c’è nulla: il crocicchio di strade trasfigura quel particolare momento della propria vita in cui si capisce che i conti non si possono più rimandare. Le certezze si fanno nuvole, i dubbi si affastellano così rapidamente da toglierci fiato e nerbo muscolare e allora:
Sono andato al crocevia, mi sono inginocchiato
Sono andato al crocevia, mi sono inginocchiato.
Ho chiesto a Dio di avere pietà: “Salvami, se vuoi”.
Si prova un senso di estraneità anche da se stessi e si getta sugli altri un’immagine che sembra non trovare riscontro:
Sono andato al crocevia, ho provato a cercare un passaggio
Sono andato al crocevia, ho provato a cercare un passaggio.
Nessuno sembrava riconoscermi: tutti mi passavano davanti.
Sul lavoro vengono alla mente varie situazioni: quando non si è più sicuri di cosa si vuole fare “da grandi”, quando si è stanchi della propria routine, quando non si intravedono nuove mete, quando gli scheletri nell’armadio che abbiamo accumulato per fare carriera non si contengono più, quando non si condivide più un impegno perché svuotato di senso, quando un bilancio tra conquiste e rinunce maturate negli anni fa venire più di qualche rimpianto, quando ci rendiamo conto che è da troppo tempo che “ce la stiamo raccontando”, quando cominciamo a vergognarci di esserci troppo spesso nascosti tra le spietate, ma in fondo comode e deresponsabilizzanti leggi del business.
Eric Clapton, che nei Cream cantava e soprattutto suonava in modo magistrale una Gibson ES-335, la sua Crossroads l’ha vissuta nel 1991, con la morte del piccolo Conor Loren.
Quel dramma, forse proprio per via della sua assurdità, gli ha dato la forza di uscire per sempre dalle dipendenze che gli avevano ammorbato la vita (droga e alcol); l’ha spinto verso una palingenesi fisica e spirituale che l’ha convinto a vendere tutte le sue chitarre per fondare un centro riabilitativo ad Antigua nei Carabi; e infine l’ha riportato, attraverso l’arte, a ricongiungersi alla sua dimensione più autentica, alle sue radici musicali, a Robert Johnson, quello vero, quello acustico, per riscoprire la purezza di un suono e di un’esecuzione che, per via di quell’ossimoro radicale che è il blues, costituiscono al contempo ricerca e appagamento.
La lezione di Crossroads è che se non siamo noi a sceglierci tutto ciò che ci capita, siamo sicuramente noi a decidere come reagire. E allora tanto vale farlo subito, perché il diavolo non è poi così cattivo, magari è solo un tizio innamorato della notte che inganna la solitudine bevendo whisky di contrabbando dalle parti di Rosedale, Mississippi, USA…
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