Il 21 febbraio il presidente Barack Obama nel corso delle celebrazioni dedicate alla storia della cultura afroamericana ha avuto la fantastica idea di organizzare alla Casa Bianca un concerto di blues. Una mossa profondamente significativa perché giustificata da parole che centrano correttamente il valore culturale di questa grande manifestazione artistica. Ha detto Obama:
“Il blues ci ricorda che abbiamo superato tempi più duri di quelli attuali e ci insegna che quando ci troviamo di fronte a un bivio non scappiamo mai davanti ai problemi. Li rendiamo nostri, li fronteggiamo, ci facciamo i conti. Su di loro cantiamo e li trasformiamo in arte. E anche se ci confrontiamo con le dure sfide di oggi, possiamo sempre immaginare un futuro migliore. Questa è una musica di umili origini. Affonda le sue radici nella schiavitù e nella segregazione, in una società che raramente trattava i neri d'America con la dignità e il rispetto che meritavano. Era la testimonianza di quei tempi duri. Tantissimi uomini e donne cominciarono a cantarlo. E il blues è andato oltre, ha sfondato ogni confine, andando oltre le zone in cui era nato. È migrato al nord, dal delta del Mississippi a Memphis, sino alla mia città, Chicago. Il blues ha provocato la nascita del Rock and Roll, del Rhythm and Blues, sino all'Hip Hop. Ha ispirato artisti e pubblico di tutto il mondo. E gli artisti di stasera ci dimostrano che il Blues continua a raccogliere le folle. Perché questa musica parla di qualcosa di universale. Nessuno attraversa la propria vita senza gioia e dolore, trionfi e insuccessi. Il blues parla di tutto questo, a volte con una sola nota e una sola parola".
Parole che sottolineano l’intima connessione tra vita e arte e la funzione catartica che quest’ultima sa svolgere quando la si svincola dalle logiche di mercato. Sì, perché il blues non nasce per farci i soldi, ma come oggettivazione di uno stato d’animo o meglio ancora di una condizione esistenziale che all’epoca delle piantagioni di cotone era quella descritta da Obama. L’intelligenza del presidente sta nell’aver evidenziato una concomitanza tra il disagio della comunità nera di allora e la diffusa sensazione di precariato che oggi accomuna più o meno tutti, dai proletari agli alto borghesi. Non è il peso del portafogli a stabilire chi ha il blues e chi no, ma la capacità di interrogarsi sulla fragilità della condizione umana, a cui nessuno sfugge, nemmeno il politico più importante del mondo. La musica blues scandisce la ricerca del contatto profondo prima con se stessi e poi con l’umanità intera che si riflette nel percorso di vita di ognuno come in gioco di lenti magnificatrici. E il senso comunitario che invoca attraverso le sue poche note dall’intonazione tremolante e dalla modalità sospesa ma non ambigua è forse la ragione della sua universalità. Tre accordi, sempre quelli, snocciolati su dodici battute, sempre quelle, ma con un’infinità di possibili modulazioni e sfumature tali da farci percepire la varietà nella costanza, l’estetica nel dettaglio, la qualità nel particolare. Un messaggio sussurrato con forza che arriva dritto al cuore delle persone sensibili e punta a rompere la scorza di chi finge di non avere un cuore.
Sul palco hanno suonato tra gli altri Mick Jagger, B.B. King, Buddy Guy, Keb’ Mo’, Jeff Beck, Derek Trucks, Susan Tedeschi, Warren Haynes. La jam session finale si è svolta sulle note di Sweet Home Chicago di Robert Johnson, e quando il microfono te lo passa Mick Jagger, anche se hai una carica istituzionale di un certo prestigio, come fai a non cantare?
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