Di recente mi sono accostato ai Beatles esercitando sul loro repertorio un ascolto critico e in cronologia
progressiva. È forse questo il metodo più sicuro per capire il loro ruolo nella
musica popolare ed evitare di abbracciare i pregiudizi artistici che qua e là
li accompagnano. Provo a sintetizzare i motivi del loro valore.
Il costume – I Beatles, discograficamente attivi
come gruppo dal 1962 al 1970, hanno sempre accompagnato i loro prodotti
artistici con un’immagine non necessariamente innovativa (a parte il caschetto
degli albori), ma coerente col messaggio che la loro musica voleva dare: i
capelli lunghi, la psichedelia, l’India, l’uso del mezzo televisivo e cinematografico, la trovata
del roof concert, l’impertinenza verbale. Tutti elementi che, pur pensati a
semplice sostegno del prodotto, sono entrati nell’iconografia rock fino a farne
un sistema di riferimento.
Le composizioni – La prolificità in rapporto al tempo
di lavoro annichilisce qualunque autore di musica (gli unici casi analoghi e comunque più limitati che
mi vengono in mente sono i Beach Boys e i Creedence Clearwater Revival). Ciò
che sorprende di più e che nettamente distingue i Beatles da chiunque altro è la
varietà di stimoli che hanno saputo sfruttare. Canzoni come Eleanor Rigby ed Helter Skelter sembrano appartenere a due mondi lontanissimi,
eppure sono uscite dalla stessa penna (Paul McCartney). Lo stesso dicasi per All You need Is Love e Tomorrow
Never Knows di John Lennon. Fondamentale
è poi il fatto che il materiale armonico messo in circolo dai Beatles è tutt’altro
che scontato. Giusto per fare un esempio, canzoni come Michelle e The Fool on the
Hill presentano la strofa in tonalità maggiore e il ritornello in minore
secondo modalità completamente estranee alle varie fabbriche di hits
discografiche di qualunque epoca. Per la qualità non voglio addentrarmi in
valutazioni soggettive, preferisco rilevare che le cover più riuscite dei loro brani
hanno messo in assoluta evidenza il potenziale di energia transculturale ivi contenuto:
elemento indubbiamente universale e tipicamente connotante ciò che può essere
definito classico (si pensi al lavoro svolto da Jimi Hendrix su Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club
Band, da Joe Cocker
su With a Little Help from My Friends, ma
segnalo anche l’incredibile alternative take di While My Guitar Gently Weeps cantata dallo stesso George Harrison e
reperibile sull’Anthology degli anni
Novanta).
La produzione – Nell’arco della loro parabola
artistica i Beatles sono sempre stati affiancati da un musicista e arrangiatore
straordinario, George Martin (a suo agio con le orchestre sinfoniche come con i loop dei nastri magnetici), che ha saputo sempre dare forma alle intuizioni
dei quattro, dimostrando una vocazione alla sperimentazione e all’approfondimento
per le tecniche di registrazione che denotano la volontà di andare molto oltre
la tranquilla rendita garantita dalla fama e dalla bellezza degli spunti
melodici.
L’influenza – Qualcuno sostiene che esista una
musica prima dei Beatles e una musica dopo i Beatles. Difficile e forse inutile
rispondere. Sintetizzando tuttavia si può dire che i Beatles si sono
appropriati rapidamente di quanto di meglio secondo loro c’era in circolazione (Chuck
Berry, Buddy Holly, Everly Bros., Bob Dylan, Beach Boys, Motown sound, senza
disdegnare di portare il country in Europa). Nel farlo, hanno dimostrato che
una sintesi non solo era possibile, ma necessaria per preludere a sviluppi
futuri. Le loro influenze sono ben visibili, ma si inseriscono in una logica di
continuità e non di plagio artistico i cui esiti rivelano che la tradizione
della buona musica esiste per essere trascesa, non stravolta. Sicuramente la
loro fama mondiale ha svecchiato, senza usurparle, molte tradizioni locali (si
pensi al beat italiano) e lo stesso rock americano ha ricevuto un nuovo impulso
dalla constatazione che gli “imitatori” inglesi stavano facendo musica migliore
della loro. Credo sia appena il caso di osservare che l'influenza dei Beatles va oltre l'ambiente musicale: è nota infatti l'ammirazione di Steve Jobs per i Beatles. Nella sua biografia più importante, quella di Walter Isaacson, Jobs si sofferma sul processo compositivo di Strawberry Fields Forever per ragionare sull'alacrità di un lavoro ben fatto e si sa che lo stesso nome Apple è trasposto copia carbone dalla casa di produzione dei quattro.
Le personalità – Aldilà del successo (fenomeno
socioeconomico che di per sé non è probante per certificare la grandezza di un
artista pop-rock) e dei clamori gossippari che lo accompagna, è un fatto che
parlare dei Beatles significa discutere di uomini con tratti di personalità
molto marcati. Quattro professionisti di cui almeno tre – John, Paul, George –
così pressati dalle loro esigenze artistiche e personali, da arrivare a
sacrificare l’impero costruito. Sicuramente, a livello di spirito di team, non
ha giovato la scelta, maturata a metà anni Sessanta, di non fare più concerti.
Ciò ha ulteriormente condizionato la tendenza di John e Paul a non scrivere più
in coppia (nonostante, come è noto, i
credits dichiarino altro). La ricerca di una maturità personale e la
realizzazione dei propri progetti di vita privata hanno fatto il resto. Nel
loro scioglimento paradossalmente possiamo constatare la garanzia di buona fede:
cioè la volontà di liberarsi dalle etichette per essere fedeli e dare pieno
corso alla realizzazione della propria natura (“I don’t beleave in Beatles”,
dirà John Lennon in God, una delle
sue canzoni-manifesto del tardo 1970). Resta il fatto che ognuno di loro ha
rappresentato negli anni successivi all’avventura dei Fab Four molto di più del
tedioso spettacolo di giovani miliardari annoiati, continuando a orientare
scelte, gusti e a stimolare progetti di emulazione.
I Beatles hanno incarnato un marchio e rappresentato
un’azienda che ha conseguito in pochissimi anni risultati straordinari. La loro
storia offre una miniera di informazioni e spunti per qualunque impresa
commerciale e toglie un sacco di alibi a imprenditori e dirigenti mediocri. I
Beatles hanno prodotto i loro capolavori in un’epoca di cambiamenti radicali, in
cui tutti i punti di riferimento culturali stavano saltando in aria. Ebbene:
sono diventati così significativi per il loro tempo (e con un minimo di ascolto
guidato, anche per il nostro) proprio perché sono stati più rapidi e forti del
cambiamento stesso. Hanno saputo prendere a sportellate qualunque ipotesi di
crisi e mancanza di senso generazionale liricizzando le loro emozioni e il
proprio vissuto, mantenendo una prospettiva che oggi definiremmo glocal. Non è solo un fatto di talento
puramente musicale: molti dei loro testi, pur non assurgendo al livello cui
poteva averci abituato Bob Dylan, non sono per niente banali e riflettono il
coraggio di manifestare se stessi, nonostante le esigenze di mercato. I Beatles
si sono sciolti semplicemente perché sentivano di aver bruciato completamente
quell’esperienza (che, non dimentichiamo, per loro si è svolta tra i 20 e i 30
anni anagrafici e quindi in età di definitiva formazione), ma la loro eredità
rimane una pietra di confronto per tutti quelli che si augurano di poter vivere
traducendo le proprie idee in un business plan.