“Coaching” è un termine che adombra una molteplicità di significati e approcci. Nell’accezione più operativa, sensata e meno sensazionalista possibile, mi piace definirla come una pratica messa in atto da un facilitatore che, attraverso lo strumento del dialogo, porta il discente a trovare da solo il modo per colmare i suoi gap, dopo aver acquisito consapevolezza e assunto responsabilità.
Il coaching si applica a tutte quelle situazioni in cui un collaboratore ha bisogno di essere riallineato rispetto ai suoi obiettivi, ascoltato e capito rispetto a una situazione personale, sensibilizzato allo sviluppo di alcune competenze utili al miglioramento della performance. Se condotta con criterio, si tratta di una pratica per niente invasiva e assolutamente costruttiva. Ciò accade in particolare quando il coach si limita a far luce sugli elementi in gioco e a presentare punti di vista differenti, lasciando che sia il collaboratore, stimolato da domande opportune, a razionalizzare il suo stato fisico-emotivo-psicologico o più spesso a identificare uno stato di fatto reale, un ambiente, un contesto situazionale.
Successo e insuccesso del coaching dipendono quasi esclusivamente dalla qualità del coach e dalla sua capacità di sottolineare i tratti salienti del processo in atto. A questo punto può entrare in gioco la musica, perché ci sono molte canzoni anche italiane che trattano temi affini alle implicazioni del coaching. Tralasciando i casi estremi che trattano di suicidio come Meraviglioso di Domenico Modugno (canzone riportata in auge dai Negramaro), Breve invito a rinviare il suicidio di Franco Battiato, Non devi dire mai più di Gianni Togni, …E dimmi che non vuoi morire di Patty Pravo, Guardati indietro di Umberto Tozzi, e i testi retorizzanti di Un giorno migliore di Paolo Belli e Non mollare mai di Gigi D’Alessio, incontriamo finalmente qualche canzone adatta ai nostri scopi.
Uno su mille di Gianni Morandi – il cantante-coach per eccellenza (“Dai che ce la fai!”), interpreta con convinzione un testo intenso, spalmato su una musica d’immediato impatto: «Tu non sai che peso ha questa musica leggera / ti ci innamori e vivi ma ci puoi morire quando è sera».
Non farti cadere le braccia di Edoardo Bennato – l’autore ricorda la sua adolescenza napoletana e la mamma che gli grida: «Non devi voltare la faccia / non arrenderti né ora né mai».
Un giorno credi di Edoardo Bennato – un classico della musica leggera che dipinge lo scarto tra ciò che dovrebbe essere e ciò che purtroppo è: «Mentre tu sei l’assurdo in persona / e ti vedi già vecchio e cadente…».
La leva calcistica della classe ’68 di Francesco De Gregori – il piccolo Nino, calciatore in erba, viene allineato su ciò che realmente è importante: non la trasformazione di un calcio di rigore, ma il coraggio, l’altruismo e la fantasia.
Ragazzo mio di Luigi Tenco – in un dialogo immaginario una mamma spiega al figlio la differenza tra l’uomo e l’acchiappanuvole e gli ricorda che «Appena si alza il mare / gli uomini senza idee / per primi vanno a fondo».
Nun me portà a casa di Franco Califano – il maestro dà il meglio di sé imbastendo uno struggente monologo in endecasillabi: la storia di un alcolizzato che racconta la sua situazione a un amico e grazie alla capacità di ascolto di quest’ultimo (in questa canzone il coach non parla mai) arriva da solo a trovare un motivo per tornare dalla moglie e ricominciare da zero.
L’elenco ovviamente non è esaustivo, ma spero sia sufficiente per inquadrare il tema secondo una prospettiva popolare e vicina alla realtà e per sostenere la tesi che il coaching produce risultati stabili e non estemporanei solo quando trova il modo di accarezzare l’intimità psicologica di una persona, senza vincolarla a standard di pensiero che la allontanano dalla naturalità del proprio essere.
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