Il 7 giugno 1988 Bob Dylan comincia un tour in giro per il mondo al quale non ha ancora posto termine. Se si eccettua uno stop alla fine degli anni Novanta per ragioni di salute, possiamo dire che promozioni di album e relativi concerti sfumano dal 1988 gli uni negli altri con una continuità impressionante. Tanto più significativo il fatto che Bob Dylan ha compiuto 70 anni da pochi giorni e che è venuto a festeggiare a modo suo (cioè cantando) anche in Italia all’Alcatraz di Milano (22 Giugno). Io ero tra il pubblico e sinceramente qualche domanda me la sono fatta.
Cosa spinge un settantenne – e non uno qualunque: stiamo parlando di un poeta che si studia nelle antologie letterarie di tutto il mondo, del portavoce della controcultura giovanile, di colui che cantando sullo stesso palco ha introdotto Martin Luther King nel suo discorso più celebre (I Have a Dream) – a girare il mondo per esibirsi in club per artisti emergenti, diramando setlist di canzoni che mettono alla prova anche i fan più acculturati, triturando i successi con versioni al limite del nichilismo, uccidendo oggi pretesa di melodia, mangiandosi le parole, con una voce che sembra la puntina di un grammofono che gode nel violentare la gommalacca?
Qui c’è aria di paradosso: canti per comunicare e fai di tutto per non essere capito. Vivi per lasciare un segno di cui nessuno si accorgerà. Chissà, il mondo dell’arte è strano, cosa ne sanno i comuni mortali di come si vive soffocando un dolore che non si sa da dove arriva? Della smania di creatività che tortura le notti, macera i sogni e ci lascia nervosi come un coito interrotto? E poi un conto è il rapporto che i fan hanno con le tue canzoni, un conto è il rapporto che con quelle cose hai tu. E poi questo fatto di non fermarsi mai e di usare il tempo per ruminare il passato: perché lasciare che sconosciuti si godano lo spettacolo del nostro personale regolamento di conti, magari dicendo che non siamo più quelli di una volta?
Se provassimo ad uscire dal mondo della musica per entrare in quello del lavoro, definiremmo l’atteggiamento del caro Bob come Workaholism, la dipendenza da lavoro. L’ossessione compulsiva del “fare a tutti i costi” aliena la persona dagli affetti e più in generale dalle relazioni e di solito cela uno psicodramma privato che non si vuole affrontare né vedere. Si tratta di una malattia che rovina le famiglie e il soggetto stesso, che sostanzialmente si autocondanna al ricatto della prestazione lavorativa e affida a quell’attività il senso del sé, ovattando il suo universo mentale che viene ridotto alla monodimensionalità. Se ne esce solo acquisendo consapevolezza e imparando a leggerne i segnali.
Tornando a Bob Dylan, nel suo concerto milanese del 2011 abbiamo assistito a qualcosa di inaudito. Dylan è noto per la sua immobilità e impassibilità dietro al microfono: non guarda il pubblico ed è sempre tremendamente serio, al limite della minacciosità. Ebbene, questa volta è accaduto che non solo ha più volte accennato a un sorriso, ma si è anche spostato da un capo all’altro del palco mentre cantava, senza chitarra e brandendo il solo microfono, avvicinandosi al pubblico e, in un paio di occasioni, addirittura inchinandosi verso le prime file. Questa cosa, che sarebbe ovvia per qualunque esordiente, per Dylan è diventata la novità del settantesimo compleanno e i fan hanno applaudito soprattutto in questi momenti perché in lui hanno visto l’uomo, non la macchina per suoni e canzoni. Non possiamo sapere se se ne sia accorto e se questo fatto gli abbia dato piacere, ma è certo che se il suo cruccio è il misconosciuto bisogno di comunicare ciò che sembra incomunicabile, qualcosa questa volta è arrivato e un ritorno c’è stato.
L’uomo-Dylan si è fatto spazio nel roveto ardente delle sue produzioni e la sua notte italiana sarà trascorsa serenamente.
Bob Dylan 2011 |
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