Nel 2003, durante un’intervista a 60 Minutes, Steve Jobs vaga alla ricerca di una metafora adatta a descrivere la sua visione del lavoro fino ad imbattersi nei suoi idoli musicali: “Il mio modello di business sono i Beatles. Erano 4 ragazzi con molto talento che tenevano sotto controllo le loro tendenze negative, si bilanciavano a vicenda e le loro canzoni erano grandi, il totale era più della somma delle parti. Così è come io vedo il business: le grandi cose non sono mai state fatte da un uomo solo, ma da un team di persone. Abbiamo fatto così sia in Pixar che alla Apple. Quando erano insieme, i Beatles hanno fatto un lavoro veramente innovativo. Quando poi si sono separati hanno fatto belle cose individualmente, ma non hanno mai ottenuto gli stessi risultati di quando erano insieme. Io vedo il business allo stesso modo: è realmente sempre un lavoro di squadra”.
Il riferimento ai Beatles si rafforza nella monumentale biografia che Walter Isaacson ha dedicato a Jobs (Mondadori, 2011). Steve Jobs racconta di amare in modo particolare una serie di registrazioni pirata in cui è possibile ragionare sul metodo di lavoro dei Beatles: ascoltando versioni differenti di Strawberry Fields Forever, un brano del 1967, Jobs osserva come i Beatles correggano di prova in prova la canzone fino a restituirne una struttura complessa in cui la mania di perfezionismo non è mai inferiore alla carica creativa. Jobs dichiara che alla Apple si lavora in modo simile: si inizia con una versione del prodotto che via via viene rifinita al punto che partendo dal risultato finale si stenterebbe a ricostruire il processo che lo ha generato.
Nel suo iPod, scrive Isaacson, si trovano canzoni che coprono l’intero periodo artistico dei sodali inglesi, ma curiosamente non sono presenti canzoni tratte dai repertori delle rispettive strade solistiche intraprese negli anni Settanta. E a quanto pare nemmeno di John Lennon, personaggio indiscutibilmente affine a Jobs, non solo per gli occhialini tondi, ma per la passione radicale e iconoclasta con la quale ha deciso di interpretare la vita.
Forse la spiegazione sta nella forza del modello d’origine: scrivere una bella canzone per i Beatles non era un traguardo, ma un punto di partenza. Il lavoro di squadra in sala prove consentiva una resa sonora unica, in grado di capitalizzare melodia e sperimentazione, coniugando il gusto popolare per il motivo arioso con le più ardite tecniche di registrazione multitraccia (è noto che uno dei motivi che spinsero i Beatles a non suonare più dal vivo da Revolver in poi, 1966, fu proprio l’impossibilità di riprodurre sul palco in modo soddisfacente quanto eseguito in studio).
Proprio il fascino esercitato su Jobs dai ripetuti moduli di perfezionamento della canzone rende l’idea della filosofia che l’ha reso grande: se è vero che la canzone è il prodotto, è altrettanto vero che l’architrave armonico che la sostiene e il layout sonoro che la riveste sono la struttura e il design che fanno dell’innovazione un elemento di piacere e di consumo.
“Compito dell’arte – dice Bono degli U2 – è scacciare la bruttezza” e allora tout se tient: con la Apple l’estetica si affaccia nel mare quantico della microtecnologia e la bellezza si trasforma in pane quotidiano.
John Lennon e Steve Jobs: chi s'assomiglia... |
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