Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

giovedì 23 dicembre 2010

Yes I Am – direzione musicale

Il casting per le voci e la registrazione delle parti vocali di Yes I Am hanno offerto una serie di spunti di riflessione utili al manager d’azienda.
La scelta delle voci è avvenuta in base a un effetto desiderato che era fin dall’inizio chiaro nella mente di Franco Mussida (confezionare un prodotto che, passato per radio o in tv, non avrebbe mai lasciato intendere che a interpretare fossero cantanti non professionisti). Gli elementi discriminanti sono stati: intonazione, timbro, estensione. Se sul primo di questi elementi nulla si poteva fare, sugli altri due si è potuto lavorare in base al gusto del direttore e alla disponibilità dei cantanti. Per ottenere quest’ultima (che innanzitutto, trattandosi di non professionisti, prevede che la voce si “spogli” delle sue sovrastrutture di pensiero e dei condizionamenti socioculturali) Mussida ha dovuto creare un rapporto di stima e fiducia. Come ha fatto? Dimostrando esperienza, competenza, capacità di comunicazione. In altre parole ha creato agio. Ciò ha permesso di ottenere il meglio da ognuno in tempo reale e di fronte ai colleghi. Mussida ha chiarito subito le pari opportunità e ha fatto sì che le qualità di ognuno emergessero in maniera evidente. La scala di valori non è stata fondata su una capacità vocale assoluta (ovviamente per i solisti un po’ di confidenza con la vocalità si è dovuta celebrare), ma sulla “voce giusta al posto giusto”: in questo modo, più che selezionati, direi che sono emersi solisti, seconde  voci e coro.
Per ogni persona Mussida ha avuto il riguardo di spiegare le ragioni di una decisione, sempre pubblicamente e sempre con garbo. Ogni ragazzo ha avuto la possibilità di confrontarsi e un “no” non è mai stato vissuto come una condizione di inferiorità, ma come un’opportunità per trovare la giusta collocazione. Come è vero che un orologio rotto segna l’ora esatta due volte al giorno così Mussida ha dimostrato che la musica è un terreno di prova che restituisce feedback molto oggettivi e che non scarta praticamente mai in senso assoluto, ma contestualizza creando consapevolezza.
Dal punto di vista operativo vale il detto “chi ben comincia…”: sono i vocalizzi d’insieme, che si svolgono (apparentemente!) per scaldare le voci, che permettono al direttore di capire e far capire quale strada prenderà il coro. Quando poi ci si trovava davanti al microfono con un paio di cuffie in testa e i colleghi lì a guardare, a quel punto era Mussida a dare la sicurezza necessaria, accompagnando ogni osservazione personale con l’ascolto ripetuto, in modo che il cantante potesse ragionare sui fatti e non sulle impressioni. Così si migliora e si sviluppa il potenziale.
Nella musica, in progetti come questo di Yes I Am, si realizza tutto in pochi giorni, nelle aziende i tempi sono altri perché i risultati si costruiscono su tempi medio-lunghi. Ma in concreto cosa cambia? Nulla: il lavoro di Mussida è stato soprattutto coaching e valutazione della performance, prerogative dei manager di valore, attività condotte con professionalità esemplare in cui carisma, genialità ed esperienza si sono fuse generando passione e sano spirito emulativo.

Franco Mussida mentre dirige

domenica 19 dicembre 2010

Yes I Am – composizione

La musica di questa canzone è nata di notte, tra febbraio e marzo 2010, suonando in cuffia la mia Fender Telecaster. Il mondo sonoro che mi girava in testa, così come la struttura del brano, poteva essere quella di un pezzo di Bob Dylan del 1966 (stile Blonde on Blonde): una ballad elettrificata senza ritornello vero e proprio, ma con gli elementi melodici da ricordare contenuti nelle strofe. Una mattina, andando al lavoro, mi è uscito quasi di getto il testo in inglese (lingua che non conosco benissimo, ma per fortuna l’ispirazione percorre anche rotte precluse alla comprensione razionale). Ho registrato la canzone su di una macchinetta digitale con sola voce e chitarra (questa volta una Gibson J-45) con l’aiuto della mia fidanzata Paola. In questa versione l’ha ascoltata Franco Mussida, che ci ha trovato del buono, ma ha manifestato la necessità di aumentare la cantabilità del brano (per lo scopo che ci eravamo prefissi la canzone doveva avere le caratteristiche di un singolo). Così, qualche giorno dopo, sempre di mattina (ma cosa mi sogno la notte?) ho preso in mano un’altra chitarra (che ora non ho più), una Gibson Blues Master, e mi è uscito un nuovo ritornello. È quello giusto: Mussida dixit. A questo punto siamo entrati in studio per la preproduzione e qui è stato esaltante vedere Mussida al lavoro. Sul piano strutturale ha costruito un crescendo da hit, mentre sul piano dell’arrangiamento ha fatto muovere il pezzo verso territori lontani dall’origine, o meglio, ha dimostrato che le suggestioni che vi si potevano ritrovare erano molte di più di quelle che ci sentivo io. Così sono uscite le chitarre distorte, un po’ di U2 e un po’ di Beach Boys, risonanze r&b e persino un inserto rap, che passo a passo ci hanno condotto alla versione finale.
La mentalità polifonica di Franco e la sua sagacia musicale possono insegnare ai manager un sacco di cose. In particolare la riflessione da fare è sul tema del cambiamento: per un produttore-arrangiatore una successione organizzata di note musicali è materia da plasmare e sorgente potenzialmente infinita di richiami a stili e sovrapposizioni strumentali. Si tratta di accettare la naturalità delle alternative. La differenza tra il manager e il produttore è che di solito il primo vive un’idea come un dato immodificabile che funzionerà così com’è (soprattutto se l’idea l’ha avuta lui) mentre il secondo la vive come ipotesi continuamente perfettibile (in fondo è questo il presupposto delle cover d’eccezione) che riflette l’alchimia delle relazioni tra i soggetti coinvolti. Tanto il manager è arroccato sulle sue posizioni e tanto il produttore musicale è aperto al dialogo e sensibile al contesto: non può usare il potere per persuadere interpreti e musicisti che si è sulla strada giusta, deve guadagnarsi la fiducia e questa arriva solo quando si è cercato il consenso con argomentazioni ben ponderate esposte assertivamente.

Franco Mussida e Piero Chiappano discutono, discutono, discutono...

Yes I Am – traduzione

Ecco il testo in italiano di Yes I Am. L’originale inglese lo trovate sul cd in vendita nei club Virgin Active a partire dalla settimana di Natale 2010. Ricordate che i proventi andranno in beneficenza a Virgin Unite, fondazione no-profit del gruppo Virgin.


Yes I Am
(Sì, lo sono)

Puoi camminare attraverso le battaglie, volare attraverso le nubi, correre in una buia tempesta e riderci sopra?
Quando scegli la strada più dura e lasci risuonare la passione, se qualcuno ti chiede: “Sei puro?”
Sì, lo sono.

Quando provi a trovare le opportunità anche nel fango e rimani sveglio da solo la notte perché vuoi arrivare in cima, quando trovi l’amore per la vita in ogni granello di sabbia, se qualcuno ti chiede: “Sei puro?”
Sì, lo sono.

Vieni con me quando i tuoi sogni stanno precipitando
Vieni con me e ti risolleverai.
Usciamo fuori con questa possibilità nelle nostre mani
Perché lo scopo è vivere come amici.

Vuoi accettare una nuova sfida col sorriso sulle labbra? Vuoi lanciarti in una discesa forsennata senza bisogno di freni?
Puoi catturare le emozioni con le braccia aperte e disegnare un nuovo progetto sentendone il sapore e il fascino?

Vieni con me quando i tuoi sogni stanno precipitando
Vieni con me e ti risolleverai.
Usciamo fuori con questa forza nelle nostre mani
Perché lo scopo è vivere come amici.

Quando trovi l’amore per la vita in ogni granello di sabbia, quando trovi l’amore per la vita in ogni goccia di pioggia, se qualcuno ti chiede: “Sei puro?”, se qualcuno ti chiede: “Sei puro?”, se qualcuno ti chiede: “Sei puro?”
Sì, lo sono.

(testo originale e traduzione di Piero Chiappano)

La cover del cd Yes I Am


Yes I Am – Employer Branding

Può la musica essere protagonista e non comprimaria in un progetto aziendale? Sì, è il caso di Yes I Am, una canzone rock in inglese scritta, cantata, ballata, registrata e filmata dallo staff di Virgin Active Italia, società leader nel settore fitness e wellness, che a partire dalle feste natalizie 2010 sarà messa in vendita in tutti i club dell’azienda. I proventi andranno a Virgin Unite, fondazione no-profit del gruppo Virgin, molto attiva nel sostenere progetti umanitari in tutto il mondo. La realizzazione di Yes I Am è stata curata da Franco Mussida del CPM Music Institute di Milano, che ha prodotto il brano e l’ha arrangiato insieme a suo figlio Sandro.
L’operazione, che sotto ogni aspetto brilla per originalità e professionalità, ha una pluralità di significati positivi. Sotto il profilo dell’intrattenimento e della formazione i ragazzi hanno svolto un’esperienza unica ed emozionante, ma hanno dovuto superare le proprie resistenze inconsce perché si sono mossi su un terreno che per loro è nuovo. Ai benefici della formazione si è aggiunto  il focus sulla responsabilità sociale, valore indispensabile per la promozione di una sana cultura del lavoro. Inoltre è stata creata un’occasione affinché persone della stessa azienda che lavorano in sedi diverse si sono potute incontrare per mettere in comune le loro esperienze e sentirsi parte di una realtà più grande che trova modalità non banali per divulgare e tenere vivi i valori di riferimento della propria cultura aziendale. Infine la promozione di valori quali la passione e l’entusiasmo combinati col rigore metodologico di una registrazione professionale stimola la partecipazione consapevole e dimostra come sia possibile dare sostanza a concetti come employer branding o internal marketing, troppo spesso limitati a parole esibite nei luoghi che si credono opportuni (vedi la maggior parte delle convention), ma che ormai sono intimamente snobbate dalla maggior parte dei lavoratori.
Una nota finale: visto che sto scrivendo sul mio blog non riesco a non dire che la musica e il testo di Yes I Am sono opera mia (l’inserto rap è della giovane Giorgia Acciaro). Se volete fare l’acquisto e sostenere Virgin Unite recatevi presso un club Virgin Active, chiedete in reception e già che ci siete visitate la struttura: la troverete bellissima!

Franco Mussida e Piero Chiappano durante la registrazione dei cori di Yes I Am

domenica 12 dicembre 2010

Innovazione e musica popolare americana - 3

Un’ulteriore prova di rivoluzione nella continuità nella musica popolare di cultura anglosassone si può apprezzare nella gestualità simbolica di molti musicisti e acquista significato nella misura in cui non si presenta come imitazione, ma come tributo e riferimento culturale. Prendiamo il caso della chitarra elettrica suonata dietro la testa. Sono ben note le performance virtuosistiche di Jimi Hendrix: ebbene anche su internet è possibile rintracciare una foto di T-Bone Walker che risale almeno a due decenni prima in cui il seminale elettrificatore del blues si esibisce nella stessa prassi. Più di recente sarà lo sfortunato texano Stevie Ray Vaughan a rinnovare il gesto nel segno della continuità.
Sempre lo stesso Vaughan si peritò talvolta nel fumare la pipa durante le svisate in segno di tributo al suo maestro Albert King.
Vecchi filmati ci mostrano il giovane Springsteen ricordare irresistibilmente le performance on stage di James Brown e Van Morrison (pare che quest’ultimo negli anni Settanta si risentì della cosa).
La sigaretta accesa incastrata nella paletta della chitarra elettrica, gesto imitato da molti chitarristi (anche amatoriali), è ben noto come marchio di fabbrica di Eric Clapton negli anni Settanta, ma  i filmati tratti dal festival di Woodstock (1969) già ci mostrano il bassista dei Canned Heat in analoga prova.
Su Youtube circola un filmato bellissimo intitolato Origins of the Moonwalk dove si può capire senza ombra di dubbio che il lavoro coreografico di Michael Jackson, lungi dall’essere un parto individuale, corrisponde in realtà a un talentuoso riuso di materiale tradizionale (ma a proposito del moonwalk si veda anche il balletto di Charlie Chaplin mentre improvvisa in Tempi Moderni la cosiddetta “canzone senza senso”).
Lo stesso ancheggiamento di Elvis Presley non era più che l’imbiancatura di movenze tipiche degli spettacoli di piazza dei musicisti e intrattenitori di colore (forse per questo un film a suo modo storiografico come Forrest Gump imbastisce la gustosa scena in cui, ripreso di spalle, un giovane dal capello impomatato e non ancora famoso strimpella Hound Dog mentre il piccolo Forrest gli balla davanti con le gambe imbragate nei sostegni ortopedici).
Il noto segno delle corna fatto con pollice indice e mignolo, che dall’iconografia rock si è oggi esteso a cenno di saluto tra persone che si riconoscono in una precisa way of life, può essere fatto risalire a John Lennon e al film Yellow Submarine.
Per non parlare dei vari Pete Townsend, Kurt Cobain, Jimi Hendrix, Paul Simonon, Ritchie Blackmore, Yngwie Malmsteen e tanti altri che hanno bruciato o sfasciato gli strumenti sul palco.
E non si può certo dimenticare il celeberrimo duck walk  di Chuck Berry, riproposto pedissequamente venti anni dopo da Angus Young degli AC/DC.
Piacciano o non piacciano, questi gesti si iscrivono in una tradizione e suonano come innovativi solo quando vengono proposti a target allargati e a nuove generazioni. Proprio in quest’ottica questi gesti possono insegnare qualcosa ai manager nei casi di riposizionamento di un brand o di una linea di prodotto. Se ci si limita a una massiccia campagna di comunicazione e promozione senza un richiamo al passato si corre il rischio sfruttare l’effetto moda e quindi di avere forti ritorni nell’immediato, ma con poca consistenza nel tempo. Non credo ad esempio che la nuova Mini, la nuova 500 e la nuova Vespa abbiano reso in base alle aspettative (sembrano già operazioni commerciali datate e Moncler e Timberland, marchi oggi tornati in auge, rischiano forse la stessa sorte), un marchio come Fred Perry invece ha saputo radicarsi potentemente nei nuovi mercati proprio perché nel selezionare target e punti vendita ha tenuto conto della sua storia.
Chuck Berry si esibisce nel duck walk, uno dei gesti più imitati della storia del rock

domenica 5 dicembre 2010

Innovazione e musica popolare americana - 2

Che gli accordi maggiori costruiti sul I, IV e V grado della scala, altrimenti detti di tonica-sottodominante-dominante, siano importanti e molto usati è cosa piuttosto nota: si ritrovano nei giri armonici che i ragazzi apprendono quando imparano a suonare la chitarra così come, variamente combinati, costituiscono il materiale delle cadenze poste in chiusura dei periodi musicali nelle composizioni di musica classica. Va inoltre ricordato che è addirittura dai tempi di Pitagora (e siamo nella Crotone del sesto secolo a.C.) che gli intervalli di ottava, quarta e quinta vengono definiti “consonanze perfette” in quanto basati su rapporti matematici semplici:1/2, 3/4, 2/3. La cosa che invece deve sorprendere è come questi principi di articolazione musicale si sono nel tempo così radicati nella memoria occidentale da costituire la base armonica di moltissime melodie, la maggior parte delle quali scritte da persone totalmente a digiuno di teoria musicale, al punto di validare la definizione di creatività data da Henry Poincaré: “Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili”.
Studiando la tradizione possiamo apprezzare come la combinazione degli accordi maggiori di tonica-sottodominante-dominante sia assurta al livello di struttura archetipale, dimostrando l’universalità del linguaggio musicale. Seguendo l’evoluzione degli stili musicali del Novecento è assolutamente possibile rintracciare il medesimo scheletro armonico sul quale il gusto del momento e le componenti culturali, uniti all’incremento tecnologico e alle esigenze della prassi esecutiva,  hanno potuto apportare variazioni legate al ritmo, all’arrangiamento e all’intenzione canora.
Se andiamo a pescare nella tradizione popolare americana di inizio secolo, nell’immenso bacino delle composizioni anonime sature di pionieri, fuorilegge, donne fedifraghe e rivendicazioni sociali, troviamo la riproposizione dello stesso schema in worksong come John Henry e Cotton Fields, in marce religiose come When the Saints Go Marching in, in canti comunitari come Jacob’s Ladder o in lamenti d’amore come Alberta. Più avanti tutto il repertorio blues e rock’n’roll attingerà nella sua forma fondamentale alla combinazione di questi tre accordi: nel primo caso ricorrendo alla sovrapposizione in ogni accordo dell’intervallo di settima minore e alle crome  swingate (che provocano quell’effetto tipicamente sensuale di scivolamento in avanti), nel secondo facendo largo uso di ritmi martellati e dei power chords (cioè accordi suonati con due note, la tonica e la quinta dell’accordo) che rendono agile l’esecuzione e invitano irresistibilmente a muovere le gambe. Anche la musica country e il bluegrass si reggono sugli accordi maggiori di tonica, sottodominante, dominante: prendendo quasi a caso dal repertorio di Hank Williams, Johhny Cash e Bill Monroe ci si imbatte con grande probabilità in questa realtà. Non diversamente la musica folk, da Woody Guthrie a Bob Dylan, ripropone il modello in capolavori quali This Land Is Your Land, Blowin’ in the Wind, Mr Tambourine Man. Praticamente tutto il country rock e molto blues rock, ma anche l’hard rock ( basti pensare a You shook Me All Night Long degli AC/DC e all’apprendistato blues dei creatori del genere: dai Cream ai Led Zeppelin) omaggiano la tradizione e, non da ultimo, il punk (si pensi a Should I Stay or Should I Go dei Clash). Ma non ci possiamo certo dimenticare di Twist and Shout dei Beatles, di Honky Tonk Woman dei Rolling Stones o ancora di Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd, giusto per citare qualche pietra miliare del rock.
In definitiva la lezione per il manager (che questa volta mi vorrà perdonare l’eccesso di teoria) deve essere questa: tutto ciò che buca il mercato in quanto considerato rivoluzionario è in realtà il frutto della riconsiderazione di quanto già assodato e soprattutto condiviso al livello di target con l’addizione di ciò che “filtra” nell’aria. Si tratta in altre parole di catturare lo spirito del tempo e di ancorarlo al frutto della tradizione: in questo modo per il consumatore sarà più facile percepire l’utilità della proposta e apprezzare lo sforzo creativo dell’azienda, che sarà percepito come una mano tesa verso i suoi bisogni.

lunedì 22 novembre 2010

Innovazione e musica popolare americana - 1

Assodato che il vantaggio competitivo nei mercati attuali è spesso caratterizzato da un efficace rapporto dell’azienda col concetto di innovazione, esaminiamo rapidamente il processo che ne valida i presupposti: la creatività.
Nella definizione classica di Henri Poincaré (1854-1912) "Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili". Si tratta in sostanza di vedere la realtà con occhi diversi, scoprendo legami nascosti e punti di vista alternativi, con occhio vigile al contesto. Nel mondo del business questo significa che il processo creativo che sfocia in innovazione di prodotto o servizio non può essere fine a se stesso ma deve tener conto dei bisogni del cliente, da interpretare e anticipare. Si tratta cioè di stabilire una relazione tra risorse a disposizione e domande che provengono dai mercati.
La storia della musica popolare americana illustra bene il caso.
Fino al primo decennio del Novecento la produzione musicale si presenta come un crogiolo di influenze e di elementi indistinti relativi agli apporti specifici delle culture di provenienza delle comunità linguistiche presenti sul territorio (afroamericani, inglesi, irlandesi, francesi, tedeschi).
Le melodie sono patrimonio di tutti (non si conoscono gli autori) mentre i testi vengono adattati alla realtà locale. La funzione della musica popolare è eminentemente sociale, cioè è quella di aggregare la comunità attorno a un elemento di svago per rafforzare l’identità di gruppo.
Gli esecutori sono solisti itineranti (vagabondi-bohémien) o compagnie viaggianti (minstrel show, tent show). Elementi che oggi definiremmo “bianchi” e “neri” si fondono in un unico amalgama sonoro e interpretativo. Le canzoni parlano di religione, lavoro, fuorilegge, diritti civili, patria, amore, viaggi, catastrofi naturali.
Negli anni Venti accade che il miglioramento delle tecniche e dei supporti di registrazione promuove la nascita e lo sviluppo del mercato discografico. Le conseguenze sono fondamentali: per gli artisti ad esempio nasce il concetto di diritto d’autore,  mentre la durata di un brano viene vincolata da esigenze tecniche di registrazione e poi radiofoniche. Cambia, e per sempre, il rapporto con la musica da parte dell’ascoltatore: all’aspetto sociologico della fruizione si affianca quello puramente estetico.  Questo fatto apre agli editori enormi possibilità di guadagno: se in passato con le edizioni a stampa la musica era prerogativa dei soli musicisti, oggi con le incisioni in gommalacca e poi in vinile il business della musica si allarga ai semplici ascoltatori favorendo la nascita di una vera e propria industria del disco che, Grande Depressione permettendo, godrà di buona salute fino a fine secolo.
Assecondando l’esigenza di spremere il mercato e applicando il principio secondo il quale diversificando l’offerta si aumentano le vendite, le case discografiche “inventano” quelli che oggi chiamiamo i generi musicali, esasperando gli apporti parziali delle singole comunità culturali e razziali. Nascono così le forme che oggi, ma troppo sbrigativamente, reputiamo “tradizionali” del blues e del country: si riferiscono a pubblici diversi e sono valutate in specifiche e distinte classifiche di vendita (secondo l’orrenda definizione di race records).
Un ulteriore passo avanti avviene negli anni Cinquanta, quando i discografici si ingegnano per scovare una musica in grado di riattraversare le barriere razziali: è ciò che accadrà con il rock’n’roll. Elvis Presley è un bianco che canta come un nero, Chuck Berry un nero che canta come un bianco: con il rock’n’roll il blues si ripulisce, il country si sporca, i ritmi si accelerano, i volumi si alzano, le star vivono al limite e si crea un circolo virtuoso tra esigenze commerciali e sperimentazione.
Per alcuni anni innovazione di prodotto ed esigenze di mercato sembrano rispondersi senza sforzo.
Negli anni Sessanta poi i generi musicali riprendono a specializzarsi, appoggiandosi alla lezione del r’n’r: nascono così il country rock, il blues rock e si gettano le basi del soul e del funky.
Verso la metà del decennio i gruppi inglesi (la cosidetta British Invasion) dimostrano di aver imparato la lezione d’oltreoceano e, partendo da una rilettura tecnicamente aggiornata dei classici del blues, si spingono fino all’invenzione dell’hard rock con Cream e Led Zeppelin. Successivamente la musica si diversifica in ulteriori sottogeneri: dalla psichedelica dei Pink Floyd al rock progressivo dei Jethro Tull, dal glam di David Bowie fino all’arrivo dell’ondata punk, che dalla seconda metà degli anni Settanta con Ramones, Sex Pistols ecc. rivoluzionerà  il mercato all’insegna dell’immediatezza espressiva.
La cosa incredibile – e qui sta la lezione per i manager – è che sotto il profilo strettamente compositivo e quindi della creatività vera e propria la storia della musica popolare americana si può spiegare tutta a partire da una struttura armonica di base di tre accordi (costruiti sul  I, IV e V grado della scala) sui quali – in virtù dell’evoluzione del gusto, dei costumi e della tecnica – la sensibilità degli artisti ha potuto esercitarsi ricombinando in maniera sempre diversa il materiale preesistente.
La musica insegna che non esiste innovazione senza tradizione e insegna alle aziende che il patrimonio culturale di un marchio, lungi dall’essere un peso vincolante verso il passato, si configura come la base indispensabile per l’innovazione di successo, il cui processo si può riassumere così: rivoluzione nella continuità. Sul piano musicale Bob Dylan in USA e i Beatles in UK sono forse i massimi interpreti del concetto di rivoluzione nella continuità:  Dylan ha saputo coniugare l’impegno e la poesia del folk con l’impeto del rock, definendo il modello di ciò che oggi chiamiamo canzone d’autore; i Beatles invece hanno saputo innestare un gusto innato per la melodia su generi musicali per convenzione piuttosto poveri di questo elemento, indicando la possibilità di far convivere lo sperimentalismo con la commerciabilità del prodotto finale.
La storia della musica popolare americana si svolge all’insegna del dialogo tra pubblico, compositori e tecnologia. Traslando la metafora nel mondo aziendale tutto questo significa interazione costruttiva tra consumatori-ricerca & sviluppo-sales & marketing e dimostra la praticabilità e l’efficacia di una visione sistemica del business, che accoglie e coltiva con pari dignità stimoli interni ed esterni senza pregiudizi e con spirito pratico, mantenendo un forte orientamento sia al compito che alla relazione.

mercoledì 3 novembre 2010

Leo Fender e la chitarra elettrica solid body - 2

Nel 1954 Leo Fender inizia a commercializzare un nuovo modello di chitarra elettrica solid body, la Fender Stratocaster, che innova rispetto alla Telecaster sotto il profilo estetico e tecnico.
Sul piano estetico viene privilegiata l’ergonomia: il corpo viene scavato nel profilo posteriore alto affinché sia più anatomico e cioè aderente al ventre del chitarrista, il manico viene profilato in modo più accurato, anche la spalla superiore del corpo viene scavata e ciò slancia la forma della chitarra che ora prende le sembianze di un oggetto in movimento, alla fine del manico viene sistemata una nuova paletta che ricorda da vicino il prototipo di Paul Bigsby. Sul piano tecnico la Stratocaster viene dotata di un terzo pickup in posizione centrale per aumentare la gamma sonora e viene innestata la leva del vibrato direttamente sul ponte a sua volta tenuto in stabilità da un gruppo di molle poste sulla schiena della cassa, infine viene aggiunto un ulteriore controllo di tono.
Sotto il profilo dell’innovazione sembra che con la Stratocaster si sia ritornati a prassi più normali, vale a dire che a un notevole breakthrough tecnologico fanno seguito costanti miglioramenti suggeriti dall’uso degli endorsers e degli appassionati. In realtà anche in questo caso avvengono fatti rilevanti e inaspettati.
Se da un lato la Fender Stratocaster finisce sulle enciclopedie di design come esempio di bello stile artigianale, dall’altro sono i musicisti stessi a spiegare a Leo Fender cosa era stato in grado di progettare. La Stratocaster ad esempio si rivela uno strumento estremamente versatile e dalle possibilità espressive che sembrano dilatabili all’infinito: dai suoni squillanti di Buddy Holly a quelli riverberati e vibrati di Hank Marvin per arrivare alle distorsioni lancinanti di Jimi Hendrix occorrono solo quindici anni, un periodo durante il quale la nuova creazione di Leo Fender contribuisce all’evoluzione stilistica del chitarrismo elettrico, favorendo esplorazioni sonore  e sperimentazioni che vanno dalla musica psichedelica (Dave Gilmour)  all’hard rock (Ritchie Blackmore), passando per il blues (Buddy Guy), il blues rock (Eric Clapton, Rory Gallagher), country rock (Mark Knopfler) fino alla discomusic di classe di Nile Rodgers con i suoi Chic. Altro fatto non secondario e questa volta sotto il profilo del costume: le forme sinuose e vagamente “femminili” della Fender Stratocaster trasformano la chitarra in una metafora sessuale, un oggetto del desiderio sfuggente e difficile da domare, procacciando la nascita della figura del guitar hero, il musicista che “può” dove gli altri nemmeno osano.
Dal punto di vista del marketing e più in generale del business la Fender Stratocaster si rivela come il prodotto perfetto: seducente, evocativo, elegante, ma anche comodo, pratico, versatile e accessibile nei costi. Un mix ideale in grado di attraversare la segmentazione del mercato per farsi abbracciare dai principianti come dai professionisti, regalando la consapevolezza che a fare la differenza sarà la simbiosi che l’esecutore saprà creare con il suo strumento. Proprio questo aspetto, cioè l’idea che il protagonista sarà comunque l’uomo, assecondato di volta in volta negli umori della performance dal servizio della sua Stratocaster, fa della realizzazione di Leo Fender una metafora vincente e sempre attuale del successo da imitare. La Fender Stratocaster è un prodotto equilibrato, misurato, pensato e vissuto, che veste di morbida bellezza le esigenze dei musicisti dando la sensazione di essere costruito su misura per portarli in un mondo a dimensione di sogno.
A ciascuno il suo sogno, oggi meglio di ieri e domani meglio di oggi. E allora (ma c’è bisogno di chiederlo ai nostri manager?), parafrasando un nota battuta del gergo del marketing, si vende la chitarra elettrica o il suono perfetto?
Il mancino Jimi Hendrix imbraccia una delle sue Fender Stratocaster sul palco di Woodstock (1969)

martedì 2 novembre 2010

Leo Fender e la chitarra elettrica solid body - 1

Leo Fender è stato il più importante progettista e costruttore di chitarre elettriche del XX secolo. A lui spetta il merito di aver trovato il modo di industrializzare la produzione di chitarre elettriche a corpo solido (solid body).

Nel secolo scorso l’evoluzione tecnica della chitarra così come il suo mercato di riferimento ha seguito passo a passo le esigenze dei musicisti. Le accresciute dimensioni delle sale da concerto e da ballo, l’impiego di organici strumentali sempre più vasti e fragorosi, l’assuefazione a nuovi ritmi e a nuove acustiche prodotte dall’urbanizzazione avevano gradualmente condotto la chitarra verso l’elettrificazione, vale a dire la trasformazione del suono mediante applicazione di un magnete avvolto in un filo di rame (pickup) a sua volta collegato mediante un cavo elettrico a un apparato di amplificazione. La semplice collocazione del pickup in prossimità della buca della cassa di risonanza piuttosto che in uno scasso praticato nella tavola armonica delle chitarre archtop (quelle con due buche a f simili alle casse armoniche dei violini) non risolveva però il grande problema dei concertisti: il cosiddetto feedback acustico, un fischio incontrollato e ingestibile provocato dall’innesco della cassa dello strumento con amplificatori e microfoni. In pratica nel bel mezzo di un’esecuzione la chitarra cominciava a fischiare devastando la purezza dei suoni.
Sul finire degli anni Quaranta per risolvere il problema Paul Bigsby progettò una chitarra a corpo solido (cioè senza la cassa, sostituita da un blocco di legno massiccio) per il musicista country Merle Travis, ma il complicato processo costruttivo non andò oltre la realizzazione del prototipo. Solo poco tempo dopo Leo Fender, facendo tesoro del lavoro di Bigsby, si applicò alla realizzazione di un modello destinato a rivoluzionare la pratica e l’estetica della chitarra elettrica: la Fender Telecaster. La cassa estremamente spartana (qualcuno per dileggio la paragonò a una pala per la neve!), il manico avvitato alla cassa, i tasti  conficcati sulla tastiera a sua volta direttamente ricavata dal manico, la circuitazione elettrica comodamente allocata appena sotto il battipenna, le meccaniche posizionate tutte sullo stesso lato della paletta: tutte caratteristiche che rendevano molto semplici e serializzabili non solo le fasi di assemblaggio dello strumento, ma anche quelle di uso e manutenzione.
Nel volgere di pochi anni la Fender Telecaster (nata col nome di Esquire con un solo pickup in prossimità del ponte, poi Broadcaster con l'aggiunta di un secondo pickup vicino al manico, poi e per ragioni di copyright nella denominazione definitiva Telecaster) divenne un must, stabilendo un benchmark per tutti gli altri costruttori di chitarre elettriche.
A partire dal 1950 possiamo dire che le caratteristiche della chitarra elettrica sono cambiate per sempre, condizionando senza appello col loro potere di fascinazione non meno che con la loro efficacia sonora la storia della musica popolare occidentale. In particolare proprio il marchio Fender ne ha tratto un beneficio determinante, passando in pochi anni da piccolo laboratorio artigianale a multinazionale della liuteria.
Come abbiamo visto si tratta di una storia di successo legata all’innovazione. Ma ciò che in questo caso merita attenzione è che l’innovazione è generata da un mutamento radicale nell’approccio all'argomento. Fino ad allora e per secoli il concetto di chitarra sembrava non poter prescindere dal fatto che lo strumento dovesse possedere una cassa di risonanza per produrre il suono: con l’invenzione della chitarra a corpo solido invece si assiste a una vera e propria rivoluzione di pensiero perché il concetto stesso di chitarra viene reimpostato  aldilà dei preconcetti della tradizione e, partendo dalla chiara definizione di un problema, rivela che l’ingegno dell’uomo è in grado di procedere e fare la differenza ancor più attraverso potenti intuizioni non meno che per miglioramenti a piccoli passi.
Questo è il messaggio che Leo Fender regala a tutti i manager che, pur consapevoli che innovazione equivale oggi a vantaggio competitivo, faticano ad evadere dagli schemi consolidati e ormai inefficaci delle proprie aziende e invocano metafore semplici e convincenti per guidare il cambiamento.

La main guitar di Bruce Springsteen: risale agli anni Cinquanta ed è nata dall'assemblaggio del corpo di una Fender Telecaster con il manico di una Fender Esquire

sabato 16 ottobre 2010

È stata tua la colpa – Edoardo Bennato

Burattino senza fili (1977) è un album di Edoardo Bennato che mette in musica la favola di Pinocchio. La narrazione delle peripezie del burattino e la caratterizzazione dei personaggi si traducono in una satira molto acuta sulle distorsioni del potere e in una simbologia decisamente attuale. In particolare fornisce più di uno spunto di riflessione proprio la lettura che Bennato fa del personaggio Pinocchio: un burattino che ha fatto di tutto per diventare un bambino come gli altri, per scoprire alla fine che omologazione e libertà sono concetti inconciliabili.
È stata tua la colpa è la canzone che apre l’album: una scelta rischiosa se si considera che si tratta di uno dei brani meno immediati, ma il contenuto del testo riassume con coerenza tutte le riflessioni successive:

È stata tua la colpa allora adesso che vuoi?
Volevi diventare come uno di noi,
e come rimpiangi quei giorni che eri
un burattino ma senza fili
e adesso invece i fili ce l'hai!...
Adesso non fai un passo se dall'alto non c'è
qualcuno che comanda e muove i fili per te
adesso la gente di te più non riderà
non sei più un saltimbanco
ma vedi quanti fili che hai!...

Pinocchio ha commesso l’errore di sentirsi inferiore in quanto diverso, ma ora che diverso non è più si rende conto che l’inferiorità è uno stato della mente e riguarda tutti quelli che sono contenti di sentirsi dire dagli altri cosa è bene e cosa è male e quali sono gli obiettivi per cui spaccarsi le mani, in altre parole: come si fa a stare al mondo.
Chi tira i fili ha ovviamente tutto l’interesse a stabilire cosa una persona debba desiderare come ricompensa per i propri sforzi, ma il fatto grave è che il terreno psicologico viene preparato pazientemente attraverso la scuola. Già, l’istituzione scuola, solo teoricamente super partes, cartina di tornasole di ogni agglomerato borghese e non a caso ripetuto bersaglio di Bennato (il "saggio" Pinocchio non venderà più i libri per vedere lo spettacolo di Mangiafuoco, ora quei libri se li leggerà tutti) si rivela in assoluto il più subdolo dei cavalli di Troia, perché dietro la parvenza della rispettabilità dei titoli accademici e della retorica d’occasione, nasconde il vuoto della riflessione sui valori umanistici, l’incapacità di selezionare e soprattutto di preparare a un’esistenza consapevole.
Il motivo? Non insegna più a pensare.
Migliaia e migliaia di iperspecialisti sfornati ogni anno dai diplomifici di un numero imprecisato di indirizzi di laurea, pronti per essere tosati come pecore, bravi esecutori del nulla, incapaci di spirito critico, inadatti alla decisione, gratificati dal puro fatto di obbedire, grottescamente felici di invidiare tutti quegli imprenditori che per fare successo si sono comportati come minimo al loro opposto, beati nell’umiltà del senso di colpa: pronti per fare da grigie comparse nel teatrino del silenzio e, recitando a comando, perdere l’occasione di diventare se stessi.

Prima eri un buffone, un burattino di legno
ma adesso che sei normale
quanto è assurdo il gioco che fai!...

Povero Pinocchio e… poveri noi.

domenica 10 ottobre 2010

Crossroads - Cream

La vicenda è nota. Robert Johnson, collettore per eccellenza di tecnica e temi del Delta blues, maestro di sintesi compositiva e di esecuzione chitarristica, nel novembre del 1936, nella stanza 414 del Gunter hotel di San Antonio (Texas), registra una manciata di canzoni destinate a gettare le basi internazionali del rock’n’roll. Cross Road Blues è una di quelle canzoni: diventerà un classico col titolo Crossroads nell’interpretazione dei Cream del 1968 (dall’album Wheels of Fire), una registrazione live che stravolge l’arrangiamento originario, imprimendovi un riff che per sonorità e intensità traghetterà la musica popolare dal rock blues all’hard rock.
Sul testo di Crossroads si è favoleggiato a dismisura, per via del fatto che, come vuole la tradizione del Mississippi, proprio ai crocevia di notte si potesse incontrare il diavolo per stringere patti con lui. Qui in realtà è tutto molto più terreno e di sulfureo non c’è nulla: il crocicchio di strade trasfigura quel particolare momento della propria vita in cui si capisce che i conti non si possono più rimandare. Le certezze si fanno nuvole, i dubbi si affastellano così rapidamente da toglierci fiato e nerbo muscolare e allora:

Sono andato al crocevia, mi sono inginocchiato
Sono andato al crocevia, mi sono inginocchiato.
Ho chiesto a Dio di avere pietà: “Salvami, se vuoi”.

Si prova un senso di estraneità anche da se stessi e si getta sugli altri un’immagine che sembra non trovare riscontro:

Sono andato al crocevia, ho provato a cercare un passaggio
Sono andato al crocevia, ho provato a cercare un passaggio.
Nessuno sembrava riconoscermi: tutti mi passavano davanti.

Sul lavoro vengono alla mente varie situazioni: quando non si è più sicuri di cosa si vuole fare “da grandi”, quando si è stanchi della propria routine, quando non si intravedono nuove mete, quando gli scheletri nell’armadio che abbiamo accumulato per fare carriera non si contengono più, quando non si condivide più un impegno perché svuotato di senso, quando un bilancio tra conquiste e rinunce maturate negli anni fa venire più di qualche rimpianto, quando ci rendiamo conto che è da troppo tempo che “ce la stiamo raccontando”, quando cominciamo a vergognarci di esserci troppo spesso nascosti tra le spietate, ma in fondo comode e deresponsabilizzanti leggi del business.
Eric Clapton, che nei Cream cantava e soprattutto suonava in modo magistrale una Gibson ES-335, la sua Crossroads l’ha vissuta nel 1991, con la morte del piccolo Conor Loren.
Quel dramma, forse proprio per via della sua assurdità, gli ha dato la forza di uscire per sempre dalle dipendenze che gli avevano ammorbato la vita (droga e alcol); l’ha spinto verso una palingenesi fisica e spirituale che l’ha convinto a vendere tutte le sue chitarre per fondare un centro riabilitativo ad Antigua nei Carabi; e infine l’ha riportato, attraverso l’arte, a ricongiungersi alla sua dimensione più autentica, alle sue radici musicali, a Robert Johnson, quello vero, quello acustico, per riscoprire la purezza di un suono e di un’esecuzione che, per via di quell’ossimoro radicale che è il blues, costituiscono al contempo ricerca e appagamento.
La lezione di Crossroads è che se non siamo noi a sceglierci tutto ciò che ci capita, siamo sicuramente noi a decidere come reagire. E allora tanto vale farlo subito, perché il diavolo non è poi così cattivo, magari è solo un tizio innamorato della notte che inganna la solitudine bevendo whisky di contrabbando dalle parti di Rosedale, Mississippi, USA…

mercoledì 29 settembre 2010

This Land Is Your Land – Woody Guthrie

Scritta nel 1940 in risposta all’ottimismo borghese di God Bless America di Irving Berlin, This Land Is Your Land si è fatta progressivamente strada nei cuori della working class americana, trasformandosi da inno patriottico studiato a scuola in masterpiece delle battaglie sociali e dei diritti civili. Ha infervorato la gioventù di Bob Dylan, trascinandolo verso la professione della musica (ascoltate la sua versione live del 1961 contenuta in No Direction Home: The Soundtrack, The Bootleg Series Vol.7, incredibilmente lenta e sofferta, ogni nota è un graffio, ogni accordo un pugno…); ha scolpito la maturità di Bruce Springsteen (cominciò a cantarla per protesta a 30 anni, all’epoca della campagna elettorale di Reegan per la presidenza USA, si trova incisa in Live/1975-85); ha conosciuto nuova vita verso la fine degli anni Ottanta per via della riscoperta della musica di Guthrie e Leadbelly da parte dello star system dell’epoca (procuratevi Folkways: A Vision Shared, con interpretazioni che vanno da Willie Nelson agli U2); ha raggiunto l’apice di notorietà grazie all’esecuzione di Pete Seeger, Springsteen e Tao Rodríguez durante la cerimonia di inaugurazione del mandato di Obama a Washingston nel gennaio 2009: una prova corale e festosa che traduce in emozioni la lotta per un ideale e rinnova il sospetto che forse la musica un po’ il mondo lo può davvero cambiare. This Land Is Your Land ha percorso le generazioni come un fiume carsico, forte di un messaggio da condividere. Il testo gioca su una contrapposizione di immagini. Nelle prime strofe si parla della bellezza dei luoghi commentati col verso

Questa terra è stata fatta per te e per me.

Improvvisamente il testo vira in negativo e si passa alla descrizione di alcune ingiustizie che sporcano l’incanto dei paesaggi:

Stavo camminando, quando ho visto un cartello
E sul cartello c’era scritto “Vietato entrare”,
ma dall’altra parte non c’era scritto niente
Quella parte è fatta per te e per me.

All’ombra di un campanile ho visto la mia gente
all’ufficio dell’assistenza sociale,
mentre loro stavano lì affamati, io ero lì che mi chiedevo
“È davvero questa la terra che è stata creata per te e per me?”

Tutto questo è molto simile a quanto si sperimenta nelle aziende: privilegi e crisi finanziarie mettono a dura prova la sensibilità di chi si sente attaccato alla maglia. Arriva un capo nuovo, si diversifica il mercato, si cambia strategia: si chiede fermezza, ma si pretende flessibilità. Si prova la sensazione che ci venga tolto quello che sentiamo nostro e un po’ è davvero così perché in fondo abbiamo contribuito a crearlo. A volte si tratta solo di un lungo temporale, altre volte di qualcosa di definitivo. A questa seconda ipotesi non c’è un vero rimedio, ma esiste una modalità di prevenzione: trovare soddisfazione non tanto nel risultato (che è qualcosa di cui comunque, esattamente come di un prodotto artistico, godranno altri) quanto nell’idea, nell’iniziativa, nell’operosità dell’azione e allora

Nessun essere vivente potrà mai fermarmi
mentre sto camminando su questa strada di libertà,
nessun essere vivente potrà mai farmi tornare indietro:
questa terra è stata creata per te e per me.

E così il nostro spazio, la nostra cifra, la nostra unicità saranno preservati.


venerdì 24 settembre 2010

Workingman’s Blues #2 – Bob Dylan

Nel 2006 Bob Dylan pubblica Modern Times, album denso di rimandi alla tradizione musicale americana, forse ingiustamente criticato per l’eccesso di citazioni se si considera la cultura oltre la norma del suo autore, abituato a trattare il testo come letteratura pura (sarebbe come accusare Dante di aver copiato dalla Bibbia!). Tra le canzoni colpisce il moto perpetuo di Workingman’s Blues #2, un andamento cantilenante che fa venire in mente un vecchio contadino che cammina sui campi appena arati, il cappello di paglia, un sacco di iuta sulla schiena, l’incedere ritmico dei passi caracollanti sulle zolle, la mano che sparge sementi con gli occhi fissi al tramonto. Probabilmente suggestionato da Workin’ Man Blues di Merle Haggard, un successo country venato di blues del 1969, il testo di Dylan denuncia una di quelle situazioni che di solito non trovano posto nei telegiornali:

Il potere d'acquisto del proletariato è andato giù
il denaro sta diventando più superficiale e debole
/…/
dicono che i salari bassi sono una realtà
se vogliamo competere con l'estero.

La crisi agita i pensieri e avviluppa la mente nella depressione, ai problemi si aggiungono problemi, l’uomo perde l’autostima, i giorni si fanno grevi, le notti tutte uguali, la mancanza di giustizia sociale mette in crisi gli apparati valoriali, ancora un passo e si scivola nel nichilismo:

Mi hanno bruciato il granaio, hanno rubato il cavallo
non posso risparmiare un centesimo,
devo stare attento, non voglio esser costretto
a una vita di crimine perpetuo.

L’uomo si aggrappa alla sua storia, cerca conferme in quello che è stato, ma è difficile quando devi tener duro senza che nessuno si accorga di te o quando sei circondato dalla superficialità di chi è partito più in alto e i tuoi problemi non solo non se li pone, nemmeno li vuole vedere. Così alla fine non resta che riconoscersi nella solidarietà di un progetto e dare corpo a un impegno che è militanza e passione:

Incontriamoci lì in fondo, non restare indietro
portami i miei stivali e le mie scarpe
puoi esitare o combattere nel miglior modo
possibile sulla linea del fronte
cantando un po’ di questo blues del lavoratore.

Mentre la canzone sfuma, un violino si insinua tra gli strumenti e suona come l’effetto di una carezza calda o come la mano protesa verso di noi dal vecchio Bob, nostro fratello sul sentiero dell’esistenza.

venerdì 17 settembre 2010

Like a Rolling Stone - Bob Dylan

Springsteen ha detto che quando ha ascoltato il colpo di batteria che saluta questa canzone, è come se qualcuno gli avesse aperto a calci le porte della mente. Ma questo è solo uno dei tanti commenti lusinghieri che circonda quella che è considerata la più grande canzone rock di tutti i tempi.
Nata da una “vomitata emotiva” lunga venti pagine, poi condensata in sei minuti di canzone rock (ma nella gestazione compositiva attraversò anche una fase pianistica in ¾ molto più soft), Like a Rolling Stone stupisce sempre per la sua immediatezza e per le impietose immagini che descrive. Coverizzata un po’ da tutti – da Jimi Hendrix a Bob Marley, dai Rolling Stones agli Articolo 31 – non delude mai, tanto è potente il polmone d’energia a cui attinge.
La versione più significativa rimane forse quella registrata dal vivo il 17 maggio 1966 alla Free Trade Hall di Manchester. Dylan, accompagnato dalla Band di Robbie Robertson e Rick Danko, dilata il brano a oltre otto minuti di durata complessiva, stonando in modo così perfetto da far invidia ai futuri Sex Pistols. Durante quel tour in Inghilterra, Dylan fu criticato apertamente e in modo quasi violento. Celebre lo scambio di parole con uno spettatore. “Judas”, gli gridarono dalla platea, “I don’t believe you… you are a liar” risponde Bob e poi, giratosi verso la Band: “Play it fucking loud!”. E giù di chitarre elettriche, batteria, organo Hammond ecc.. Dylan aveva scelto: la sua musica era cambiata per sempre.
L’attacco di vomitosi del testo si riferisce a una ragazza cresciuta negli agi, abituata a non chiedere mai, semplicemente a prendere, che ha coltivato la superficialità e l’indifferenza per il diverso, guardando tutti dall’alto, sfuggente e inarrivabile (personaggio in parte rivisitato da Ligabue in Eri bellissima, 2002), ha fatto scuole raffinate, ma alla fine non faceva che spassarsela.
Ora le cose sono cambiate: la ragazza per bene è diventata Miss Solitudine, ha perso tutto, soldi e certezze, e prova l’ebbrezza dell’assenza di punti fermi:

Come ci si sente,
come ci si sente
a stare per proprio conto
senza un posto dove andare
come una completa sconosciuta,
come una pietra che rotola?

Da principessa a vagabonda dell’essere, Miss Solitudine è costretta a scendere a patti con tutti quelli di cui si prendeva gioco e cui conferiva esistenza solo per il proprio sollazzo. La ragazza non è più in condizione di scegliere niente perché a nessuno ti puoi rifiutare

Quando non hai niente, non hai niente da perdere,
ora sei invisibile, non hai segreti da nascondere.

Chi sono gli omologhi aziendali di Miss Solitudine? Quelli che sono partiti già in alto, quelli che hanno preso le “scorciatoie”, quelli che non c’entrano niente ma hanno la faccia giusta, gli emuli del Marchese del Grillo («Mi dispiace, ma io so’ io, e voi nun siete un cazzo!»), i figli e parenti di, quelli con gli stipendi gonfiati, i tesserati, i paraculi e i miracolati. Ma prima o poi la ruota gira perché nelle aziende agisce la legge della compensazione. Così Like a Rolling Stone diventa una canzone sul karma, un po' di pazienza per favore…

mercoledì 15 settembre 2010

Maggie's Farm - Bob Dylan

Il 1965, è cosa nota, è un anno cruciale per la carriera di Bob Dylan e più in generale per la storia del rock. Sbrigativamente potremmo dire che in quell'anno il celebrato folksinger è diventato “elettrico”, ma più correttamente dovremmo dire che, elettrificando la sua musica, Dylan ha portato ordine nel mondo del rock e soprattutto l’ha obbligato a confrontarsi con un contenuto di pensiero che poteva essere nobilitato da una forma elevata. Insofferente alle etichette, carattere a dir poco schivo che tutto sommato si è divertito a giocare con la popolarità molto più di quanto non abbia cercato di convincere i suoi biografi, Dylan si presenta il 25 luglio al Newport Folk Festival (tempio acustico per eccellenza dove già era stato venerato nei due anni precedenti), accompagnato dai membri della Paul Butterfield Blues Band e, contrappuntato dalle sciabolate di Michael Bloomfield abbarbicato in posizione fetale a una Fender Telecaster bianca, ingaggia una virulenta Maggie’s Farm. Il pubblico, revivalisti e giovani di buona famiglia, reagisce male, ma ormai il dado è tratto, il profeta ha vaticinato: la cultura democratica americana può e deve integrare i suoi elementi in una sintesi potente quale è la musica che gli amplificatori di Newport stanno diffondendo.
Il brano d’apertura del set di Dylan è una canzone di protesta dedicata al mondo del lavoro:

Non lavorerò mai più alla fattoria di Maggie
No, non lavorerò mai più alla fattoria di Maggie.

Perché mentre lavori il fratello di Maggie ti tira le monetine con disprezzo, suo padre ti sbuffa il sigaro in faccia e sua madre anziché sostenerti passa il tempo a farti prediche sulla legge e su Dio, fingendo di non sapere che chi viola i precetti è proprio la famiglia di Maggie. Ma il protagonista della canzone va oltre e fa un’osservazione psicologica che, in tempi di dittatura delle corporation, suona molto attuale:

Faccio del mio meglio
per restare quello che sono,
ma tutti pretendono
che tu sia come loro.

Per resistere in quelle condizioni, canta Bob, la scorciatoia suggerita dai datori di lavoro è quella di rinunciare a se stessi e farsi dire da loro chi sei, quanto vali e dove puoi arrivare. Ma tu non devi cedere.
Così Maggie’s Farm diventa un’invettiva contro l’omologazione, la risocializzazione, il pensiero unico e un inno alla riappropriazione di sé.
Ed ecco spiegata la rivoluzione di Dylan: una canzone dalla struttura country blues, aggiornata nei contenuti e nell’arrangiamento, confluisce nel rock portando sostanza, dignità, valori e trascendendo il tempo come tutti i prodotti culturali di alto livello.

martedì 14 settembre 2010

The Ghost of Tom Joad - Bruce Springsteen

Procediamo con ordine: in principio fu John Steinbeck, che creò il soggetto e lo fece protagonista del suo romanzo Furore (1939); l’anno successivo uscirono l’adattamento cinematografico del libro per la regia di John Ford e quello musicale ad opera di Woody Guthrie (la ballata intitolata Tom Joad); nel 1995 il secondo album acustico della carriera di Bruce Springsteen sarà trainato da un brano venuto fuori dalle trincee della coscienza, The Ghost of Tom Joad, che darà il titolo all’intero lavoro.
La storia di Tom Joad si svolge al tempo della Grande Depressione ed è la storia di tanti eroi sconosciuti che non chinano la testa di fronte al sistema che ha generato la loro miseria. Bruce riambienta la vicenda ai tempi nostri: lo spettacolo esibito agli occhi di un emigrante degli anni Novanta non è poi così diverso da quello che toccava in sorte a un Okie degli anni Trenta. Anche perché il vero paesaggio è quello interiore e i chiaroscuri dell’animo umano sono sempre gli stessi, resi forse più malinconici dalle proporzioni planetarie del fenomeno e dal fallimento di quello che qualcuno si ostina ancora a chiamare progresso:

Benvenuti nel Nuovo Ordine Mondiale,
nel sud est ci sono famiglie che stanno dormendo nelle loro auto,
niente casa, niente lavoro, niente pace, niente riposo.

Così il protagonista della canzone si accovaccia davanti al fuoco e, inseguendo le morbide lingue lucenti che si innalzano al cielo, cerca il fantasma di Tom Joad mentre ricorda le parole con cui quest’ultimo si congedò dalla madre:

«Mamma, dovunque c’è un poliziotto che sta picchiando un ragazzo,
dovunque c’è un neonato affamato che piange,
dove c’è una battaglia contro il proprio sangue e c’è odio nell’aria,
cercami mamma, io sarò lì.

Dovunque c’è qualcuno che sta lottando per un posto dove stare
o un lavoro decente o una mano che l’aiuta,
dovunque qualcuno sta combattendo per essere un uomo libero,
guarda nei suoi occhi, mamma, e mi vedrai».

È una canzone sui diritti civili, viene da dire, ma forse è qualcosa in più: descrive una scelta, un biglietto di sola andata, una patto con se stessi ed è anche un monito per tutti quelli che nelle aziende vedono il valore "giustizia" subire le offese di qualche capetto prepotente e lasciano che l'indifferenza seppellisca l'indignazione. Sicuramente è una canzone da ascoltare al buio: la chitarra sembra registrata due stanze più in là, la voce sembra farsi largo come un piccolo ragno tra le assi del parquet e l’armonica, beh, se l’anima ha un suono, penso sia proprio quello che si ascolta qui dentro.

lunedì 13 settembre 2010

Land of Hope and Dreams – Bruce Springsteen

Questa canzone viene pubblicata da Bruce Springsteen nell’album Live in New York City (2001) ed è documentata anche da un dvd ufficiale. È una canzone bipartita: la prima tranche si svolge sul tipico incedere della ballata rock (strofa-ritornello-strofa-ritornello), poi la canzone vira su un accordo in minore e strizza l’occhio al gospel, suggestionando il pubblico attraverso i cori della E Street Band. Springsteen, in grande forma vocale, prende spunto da uno spiritual tradizionale intitolato This Train Is Bound for Glory inciso da vari artisti tra cui Woody Guthrie e Big Bill Broonzy, ma se in quel caso il treno che viaggia verso la gloria celeste trasporta solo persone immacolate (niente ladri, speculatori, ubriaconi, bugiardi, imbroglioni ecc.) nel brano di Springsteen il treno diventa metafora del viaggio terreno e allora ecco che

Questo treno
Porta santi e peccatori
Questo treno
Porta perdenti e vincitori
Questo treno
Porta puttane e giocatori d’azzardo
Questo treno
Porta anime perdute.

Ma siamo al cospetto di una canzone ottimista perché si tratta di un viaggio verso la redenzione. E difatti su

Questo treno
I sogni non saranno frustrati
Questo treno
La fede sarà ricompensata.

Anche le aziende sono piene di santi e peccatori, perdenti e vincitori, donne di malaffare e persone senza scrupoli. Fa parte del gioco. Ma in azienda siamo tutti accumunati delle stesso destino: quello di passare. E allora non ci resta che decidere che tipo di segno lasciare. Quello dipende solo da noi.

sabato 11 settembre 2010

This Hard Land – Bruce Springsteen

Notizie dalla prateria: anche il Boss protegge i suoi tesori. Questa canzone risale al 1982, ma Springsteen la mantiene inedita fino al 1995, anno in cui la pubblica nel Greatest Hits in una seppur molto fedele nuova versione (il first cut si può ascoltare in Tracks del 1998). Compiendo un sacrilegio agli occhi dei fan perché si tratta in assoluto di uno dei suoi pezzi più belli.
La musica sembra uscita dalla penna di qualche folksinger itinerante americano di metà secolo – la voce bruciata dalla sabbia delle pianure texane – e distilla in tre accordi uno schema che si ripete e si vorrebbe non finire mai. Gli assoli di armonica sono un invito alla danza (quella dei saloon con cappelli, stivali e speroni) e qui si rimane sorpresi: perché Springsteen sembra celebrare la gioia della vita scomoda e del lavoro duro. Comincia il testo:

Hey signore, puoi dirmi
cosa è successo ai semi che avevo seminato?
Puoi darmi una ragione, signore,
sul perché non siano mai cresciuti?

E poi via con una collezione di difficoltà e insuccessi lavorativi che capitombolano tutti su «questa dura terra» di cui ci sembra di subire l'acredine e le increspature. Alla fine però tutto si riassume in un messaggio da tatuaggio che sfrega il cuore o da bandiera che ha attraversato mille battaglie:

Stay hard, stay hungry, stay alive.

Tieni duro, resta affamato, mantieniti vivo perché alla fine si tratta dell’unica terra che ti è stata data ed è proprio su di essa che ti devi giocare la vita. Così anche la fatica diventa un dono o, se preferisci, la più grande opportunità per capire chi sei.

Speranza e sogni in Manager Songbook

Rovistando tra le pieghe del mio libro Manager Songbook ho trovato queste frasi che descrivono come la penso a proposito delle parole che intitolano il mio blog.

Così mi esprimo a proposito della speranza:
“Rinunciare a sperare è come sottoscrivere una morale da schiavi, dove si starà anche in buona compagnia con la maggior parte della popolazione, ma dove la catalessi della creatività e l’accettazione acritica di un modello dominante finiranno col procurare una solitudine esistenziale ben più grave di quella avvertita durante il libero volo dell’aquila che portiamo nel petto” (p.158).
E così a proposito dei sogni:
“È preferibile il muto dolore di un sogno che non si avvera al non aver sognato mai. È un’inquietudine positiva quella di non sapersi accontentare, perché obbliga a stare desti, affamati, vivi. Dove c’è qualcosa che merita di essere migliorato ci deve essere un sogno, e tutto si può migliorare. Non la vita è sogno, ma il sogno è vita…” (p.176).

Qualche canzone da riascoltare?
Badlands, The Promised Land, This Hard Land, Land of Hope and Dreams tutte di Bruce Springsteen
We Shall Overcome di Pete Seeger
Blowin’ in the Wind, I Shall Be Released di Bob Dylan
A Change Is Gonna Come di Sam Cooke
(I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones
Redemption Song di Bob Marley
Pride (In the Name of Love) degli U2

mercoledì 8 settembre 2010

Manager Songbook - Piero Chiappano - 2010

Nel luglio del 2010 ho pubblicato il libro Manager Songbook. Rock e canzone d'autore per migliorare l'azienda (Edizioni de Il Sole 24 Ore). In questo libro filtro i temi del lavoro e delle multinazionali attraverso il setaccio della musica rock e della canzone d'autore. Testi famosi e vicende di artisti vengono presi a modello per descrivere vizi, virtù e competenze manageriali allo scopo di creare consapevolezza e responsabilità in chi dirige le aziende. Il libro dedica una digressione alla generazione degli anni Ottanta (che è anche la mia) e sottolinea come certa musica abbia svolto un ruolo più formativo in termini di strutturazione dei valori di quanto non abbiano saputo fare gli attori istituzionali. Si può diventare manager migliori grazie a Springsteen, Dylan, Johnny Cash, Battiato, Vasco Rossi, Ligabue, Tenco, Gaber, Jannacci, De André, Tiromancino, Fossati, Carmen Consoli, Ruggeri, Vecchioni, Bennato, De Gregori? Io credo di sì e - da fan, ex musicista, formatore aziendale - provo a raccontarlo con le mie parole. La prefazione è di Franco Mussida, grande musicista e grande uomo, che mi ha onorato della sua conoscenza e frequentazione.