Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

venerdì 17 aprile 2015

La grandezza dei Beatles

Di recente mi sono accostato ai Beatles esercitando sul loro repertorio un ascolto critico e in cronologia progressiva. È forse questo il metodo più sicuro per capire il loro ruolo nella musica popolare ed evitare di abbracciare i pregiudizi artistici che qua e là li accompagnano. Provo a sintetizzare i motivi del loro valore.


Il costume – I Beatles, discograficamente attivi come gruppo dal 1962 al 1970, hanno sempre accompagnato i loro prodotti artistici con un’immagine non necessariamente innovativa (a parte il caschetto degli albori), ma coerente col messaggio che la loro musica voleva dare: i capelli lunghi, la psichedelia, l’India, l’uso del mezzo televisivo e cinematografico, la trovata del roof concert, l’impertinenza verbale. Tutti elementi che, pur pensati a semplice sostegno del prodotto, sono entrati nell’iconografia rock fino a farne un sistema di riferimento.

Le composizioni – La prolificità in rapporto al tempo di lavoro annichilisce qualunque autore di musica (gli unici casi analoghi e comunque più limitati che mi vengono in mente sono i Beach Boys e i Creedence Clearwater Revival). Ciò che sorprende di più e che nettamente distingue i Beatles da chiunque altro è la varietà di stimoli che hanno saputo sfruttare. Canzoni come Eleanor Rigby ed Helter Skelter sembrano appartenere a due mondi lontanissimi, eppure sono uscite dalla stessa penna (Paul McCartney). Lo stesso dicasi per All You need Is Love e Tomorrow Never Knows  di John Lennon. Fondamentale è poi il fatto che il materiale armonico messo in circolo dai Beatles è tutt’altro che scontato. Giusto per fare un esempio, canzoni come Michelle e The Fool on the Hill presentano la strofa in tonalità maggiore e il ritornello in minore secondo modalità completamente estranee alle varie fabbriche di hits discografiche di qualunque epoca. Per la qualità non voglio addentrarmi in valutazioni soggettive, preferisco rilevare che le cover più riuscite dei loro brani hanno messo in assoluta evidenza il potenziale di energia transculturale ivi contenuto: elemento indubbiamente universale e tipicamente connotante ciò che può essere definito classico (si pensi al lavoro svolto da Jimi Hendrix su Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, da Joe Cocker su With a Little Help from My Friends, ma segnalo anche l’incredibile alternative take di While My Guitar Gently Weeps cantata dallo stesso George Harrison e reperibile sull’Anthology degli anni Novanta).

La produzione – Nell’arco della loro parabola artistica i Beatles sono sempre stati affiancati da un musicista e arrangiatore straordinario, George Martin (a suo agio con le orchestre sinfoniche come con i loop dei nastri magnetici), che ha saputo sempre dare forma alle intuizioni dei quattro, dimostrando una vocazione alla sperimentazione e all’approfondimento per le tecniche di registrazione che denotano la volontà di andare molto oltre la tranquilla rendita garantita dalla fama e dalla bellezza degli spunti melodici.

L’influenza – Qualcuno sostiene che esista una musica prima dei Beatles e una musica dopo i Beatles. Difficile e forse inutile rispondere. Sintetizzando tuttavia si può dire che i Beatles si sono appropriati rapidamente di quanto di meglio secondo loro c’era in circolazione (Chuck Berry, Buddy Holly, Everly Bros., Bob Dylan, Beach Boys, Motown sound, senza disdegnare di portare il country in Europa). Nel farlo, hanno dimostrato che una sintesi non solo era possibile, ma necessaria per preludere a sviluppi futuri. Le loro influenze sono ben visibili, ma si inseriscono in una logica di continuità e non di plagio artistico i cui esiti rivelano che la tradizione della buona musica esiste per essere trascesa, non stravolta. Sicuramente la loro fama mondiale ha svecchiato, senza usurparle, molte tradizioni locali (si pensi al beat italiano) e lo stesso rock americano ha ricevuto un nuovo impulso dalla constatazione che gli “imitatori” inglesi stavano facendo musica migliore della loro. Credo sia appena il caso di osservare che l'influenza dei Beatles va oltre l'ambiente musicale: è nota infatti l'ammirazione di Steve Jobs per i Beatles. Nella sua biografia più importante, quella di Walter Isaacson, Jobs si sofferma sul processo compositivo di Strawberry Fields Forever per ragionare sull'alacrità di un lavoro ben fatto e si sa che lo stesso nome Apple è trasposto copia carbone dalla casa di produzione dei quattro.

Le personalità – Aldilà del successo (fenomeno socioeconomico che di per sé non è probante per certificare la grandezza di un artista pop-rock) e dei clamori gossippari che lo accompagna, è un fatto che parlare dei Beatles significa discutere di uomini con tratti di personalità molto marcati. Quattro professionisti di cui almeno tre – John, Paul, George – così pressati dalle loro esigenze artistiche e personali, da arrivare a sacrificare l’impero costruito. Sicuramente, a livello di spirito di team, non ha giovato la scelta, maturata a metà anni Sessanta, di non fare più concerti. Ciò ha ulteriormente condizionato la tendenza di John e Paul a non scrivere più in coppia (nonostante, come è noto,  i credits dichiarino altro). La ricerca di una maturità personale e la realizzazione dei propri progetti di vita privata hanno fatto il resto. Nel loro scioglimento paradossalmente possiamo constatare la garanzia di buona fede: cioè la volontà di liberarsi dalle etichette per essere fedeli e dare pieno corso alla realizzazione della propria natura (“I don’t beleave in Beatles”, dirà John Lennon in God, una delle sue canzoni-manifesto del tardo 1970). Resta il fatto che ognuno di loro ha rappresentato negli anni successivi all’avventura dei Fab Four molto di più del tedioso spettacolo di giovani miliardari annoiati, continuando a orientare scelte, gusti e a stimolare progetti di emulazione.




I Beatles hanno incarnato un marchio e rappresentato un’azienda che ha conseguito in pochissimi anni risultati straordinari. La loro storia offre una miniera di informazioni e spunti per qualunque impresa commerciale e toglie un sacco di alibi a imprenditori e dirigenti mediocri. I Beatles hanno prodotto i loro capolavori in un’epoca di cambiamenti radicali, in cui tutti i punti di riferimento culturali stavano saltando in aria. Ebbene: sono diventati così significativi per il loro tempo (e con un minimo di ascolto guidato, anche per il nostro) proprio perché sono stati più rapidi e forti del cambiamento stesso. Hanno saputo prendere a sportellate qualunque ipotesi di crisi e mancanza di senso generazionale liricizzando le loro emozioni e il proprio vissuto, mantenendo una prospettiva che oggi definiremmo glocal. Non è solo un fatto di talento puramente musicale: molti dei loro testi, pur non assurgendo al livello cui poteva averci abituato Bob Dylan, non sono per niente banali e riflettono il coraggio di manifestare se stessi, nonostante le esigenze di mercato. I Beatles si sono sciolti semplicemente perché sentivano di aver bruciato completamente quell’esperienza (che, non dimentichiamo, per loro si è svolta tra i 20 e i 30 anni anagrafici e quindi in età di definitiva formazione), ma la loro eredità rimane una pietra di confronto per tutti quelli che si augurano di poter vivere traducendo le proprie idee in un business plan.

giovedì 18 dicembre 2014

Kirby Ferguson – Da dove viene la creatività?

Su TED TV mi sono imbattuto in una conference di Kirby Ferguson, un giovane americano esperto in media technology che porta avanti un’idea secondo la quale il processo creativo non sia patrocinato da fattori puramente ispirativi, bensì determinato dal convergere di tre fattori:

COPIARE, TRASFORMARE, COMBINARE.

Per illustrare la sua teoria, Ferguson si avvale di numerosi esempi tratti dalla musica folk. In particolare svela come Bob Dylan, il suo mentore Woody Guthrie e i vecchi bluesman considerassero normale e perfettamente lecito utilizzare del materiale musicale e testuale preesistente per presentarlo secondo una veste aggiornata e rimodellata. In pratica non si tratterebbe di commettere un plagio bello e buono (per quello fanno scuola i Led Zeppelin che nei primi album riproducevano intere sequenze mutuate da altri senza denunciarne le fonti), ma di una “rimasticazione” che si avvale anche di apporti originali.
Procedendo di questo passo si arriva, in tempi più recenti, al remix, tecnica secondo la quale dalla combinazione di prodotti media già esistenti se ne crea uno nuovo (un esempio molto noto è costituito da All Summer Long di Kid Rock, canzone nata grazie al cospicuo apporto di Werewolves in London di Warren Zevon e di Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd).

Kirby Ferguson

È un po’ la storia che si può constatare nell’evoluzione dei personal computer e degli smartphone con il conseguente successo planetario di Steve Jobs, dove il prodotto effettivamente acquistato proviene dalla sapiente combinazione di brevetti precedenti. Così come analogamente meritano di essere ricordate le italiche intuizioni di Adriano Olivetti a proposito delle sue macchine per scrivere.
Quello che vuole sottolineare Ferguson è che la cosiddetta proprietà intellettuale, tutelata dalle legislazioni di tutto il mondo, a ben indagare sarebbe molto difficile da dimostrare in quanto a genuinità, proprio perché il mondo è da sempre interconnesso e gli scambi di concetti viaggiano molto più rapidamente della nostra consapevolezza in merito. Eliminare la tutela, che fondamentalmente esiste per scopi commerciali, permetterebbe la promozione libera e agile di tutte quelle idee che effettivamente sono in grado di incidere sul bene comune, creando un meccanismo di selezione naturale favorevole a ciò che effettivamente aiuta a stare meglio.
La questione è tanto complessa quanto utopica e forse bisognerebbe distinguere con intelligenza gli ambiti di applicazione (se, ad esempio, si toglie la proprietà intellettuale agli autori impegnati in vari rami artistici,di cosa potrebbero mai vivere queste persone spesso benemerite?), sicuramente però la riflessione stimolata da Ferguson è tutt’altro che banale perché la sua soluzione contribuirebbe a migliorare la qualità della vita (si pensi al prezzo di molti farmaci salvavita di cui poche multinazionali sono monopoliste, detenendone i brevetti), riducendone i costi. Riporto le bellissime ultime parole dell’intervento di Kirby Ferguson:


La nostra creatività viene dall’esterno, non dall’interno. Non ci facciamo da soli. Dipendiamo l’uno dall’altro, e ammetterlo non vuol dire abbracciare la mediocrità e il copiare. È una liberazione dalle idee sbagliate, e un incentivo a non aspettarsi troppo da noi stessi e semplicemente cominciare.

martedì 9 dicembre 2014

Mario Venuti – I capolavori di Beethoven

Ho ascoltato una bella canzone. Si chiama I capolavori di Beethoven ed è tratta da Il tramonto dell’Occidente, l’album di Mario Venuti datato 2014 (stesso titolo del profetico e discusso libro del filosofo tedesco Oswald Spengler, 1918).
La canzone, un po’ come tutto l’album vuole significare, racconta di una civiltà che sta consumando le ultime briciole del suo valore. Giunto alla fine di un ciclo, questo Occidente carico di egotica arroganza si trova a fare i conti con una condizione inattesa e mai valutata: quella di aver perso la propria centralità nel determinare gli equilibri mondiali e di essere diventato appendice di un nuovo asse non ancora ben identificabile.

Mario Venuti
Colpi di coda, rantoli, sfruttamenti dell’ultimo minuto si susseguono a ritmo sempre più vorticoso, con gli abitanti costretti a viaggiare su una trottola che sembra accelerare i rivolgimenti terrestri. Il centro si fa periferia, il Sud diventa Nord e l’Est dilaga nell’Ovest. L’economia mondiale segue regole autoreferenziali, logiche iperboliche e traiettorie  oblique, indifferente ai bisogni della terra e alla sostenibilità etica. Le guerre preventive ammantano di falsità il senso morale e la consolazione di poter “consumare” prodotti superflui diventa la massima aspirazione di chi ancora può definirsi benestante. La scusa della globalizzazione offre il destro all’imbarbarimento culturale nel nome della vittoria del più furbo o del più appariscente. Si vive per il presente, eredi di una storia che nessuno conosce più, di testimonianze artistiche che annoiano e non si capiscono, di un futuro che non si vuole immaginare.
Beh, in tutto questo po’ po’ di disgrazie e di babeliche confusioni ecco una considerazione che sa di speranza:  

…I capolavori di Beethoven
non erano l'ardore dei vent'anni
non erano il segnale del divino
ma il primo dono della sordità.

Proprio così, se la sordità di Beethoven, sventurata malattia preludio alla sua maturità anagrafica, non gli ha impedito di scrivere capolavori quali la Sinfonia n. 9, la sonata in Do minore Op. 111 e le Variazioni Diabelli, ecco che la stessa sordità può essere impiegata per metaforizzare la nostra condizione attuale. Ci sentiamo tutti, a vario titolo, impediti nell’espressione e nell’espansione delle nostre possibilità. Ma proprio questa privazione di libertà o negazione di senso, spiega Venuti, può stimolare la creatività e quindi la ricerca di una redenzione che ci elevi dalla miseria (non solo culturale) in cui ci siamo cacciati:

il ritorno inatteso della povertà
ci insegni
finalmente
l'idea dell' abbastanza

E che questo “abbastanza” si lasci sondare, approfondire, penetrare fino a mostrarsi denso di sfumature che ci arricchiscono a dismisura.

La canzone si giova del prezioso contributo vocale di Franco Battiato, persona avvezza alla gestione di tematiche sottili, e qua e là si diverte a seminare note della Patetica del maestro di Bonn, che molti riconosceranno all’istante.

lunedì 1 dicembre 2014

Professione personal trainer – Piero Chiappano – 2014

In questi giorni è in distribuzione nelle migliori librerie il mio libro Professione personal trainer. Strategie imprenditoriali per trasformare una passione in professione, pubblicato dalla FrancoAngeli (Milano, dicembre 2014),  la casa editrice leader nella saggistica manageriale in Italia.
Il libro raccoglie le mie pluriennali riflessioni su una professione emergente e remunerativa nell’era dei servizi e passa in rassegna molti temi affrontati nella mia attività di formatore. Lavorando ufficialmente nel settore del fitness dal 2002, ho infatti avuto modo di osservare e di confrontarmi direttamente con l’evoluzione di questo mercato, oggi più vicino al leisure che non alla pratica sportiva.


Il libro comincia con una disamina (anche provocatoria) dei luoghi comuni legati alla professione del personal trainer, per poi virare verso i temi centrali a cui saranno dedicati altrettanti capitoli: la strategia d’impresa, la soddisfazione del cliente, lo sviluppo personale. Si tratta di dimensioni chiave per il successo, che spesso però vengono considerate solo in corso d’opera e non predisposte in partenza nella cassetta degli attrezzi del professionista.
In queste pagine cerco di sensibilizzare alla disciplina, alla sistematicità e al realismo nel considerare il contesto di riferimento: fatto di clienti sempre più esigenti e abituati ad acquistare non più semplici beni o servizi, ma soluzioni che semplifichino e migliorino in modo significativo la loro vita.
Chi legge affronta una cavalcata negli strumenti più noti della strategia e del marketing, nelle considerazioni legate all’experience economy, nella disamina di  una griglia di competenze manageriali predisposta ad hoc. Per arrivare poi ad elementi di gestione del tempo e di organizzazione dell’agenda, e per concludere con alcuni suggerimenti su come impostare il proprio business plan e quindi la propria gestione economica. In appendice si trovano alcuni appunti che citano le scuole di formazione alle quali ci si può rivolgere per sviluppare o migliorare il proprio background tecnico.
Considero il capitolo dedicato alla soddisfazione del cliente particolarmente originale e invito i lettori ad affrontarlo con la giusta obiettività ed apertura mentale: qui, attingendo al pensiero di due celebri etologi come Desmond Morris e Konrad Lorenz,  suggerisco numerosi spunti per capire la complessità della trattativa e della fidelizzazione in un settore come l’attività fisica, dove non si può trovare beneficio se non attraverso un sacrificio (che i consumatori di oggi, per statuto, sono sempre meno disposti a compiere).

Il libro è arricchito da molte metafore tratte da mondo della musica rock che spero rendano gradevole la lettura. Bruce Springsteen è il nostro mentore per la creazione di un’esperienza memorabile, Jimmy Page suggerisce un modello per lo sviluppo personale, Johnny Cash ci dà un’idea di che cos’è il coaching, Leo Fender diventa partner nell’illustrazione del pensiero laterale. Insomma, non è il solito libro, e mi auguro vivamente che sia utile a chi sta per affrontare una nuova avventura professionale e a chi già l’ha intrapresa da tempo ed è alla ricerca di nuovi stimoli organizzativi e imprenditoriali.

mercoledì 19 novembre 2014

Ligabue - Il muro del suono

Il muro del suono è una canzone tratta da Mondovisione (2013) che racconta della necessità di contrapporsi a un sistema autodistruttivo. La resa del messaggio risulta particolarmente efficace se alla canzone si associa il videoclip ufficiale.

Ligabue e la band nelle officine reggiane
Qui la band del Liga suona all’interno di una fabbrica dismessa (le officine reggiane) ridotta a poco meno che macerie e detriti. Nel disordine, nella polvere, nella desolazione, nelle scartoffie dimenticate chi guarda può ripercorrere con la fantasia il tempo in cui quel luogo era vivo e operoso, aiutato da alcune sovrimpressioni che segnalano a cosa gli ambienti erano in origine preposti: fonderia, officina, catena di montaggio, uffici, risorse umane, sala riunione, direzione generale. E non è possibile non provare un senso di commiserazione per ciò che fu.
Il testo a questo punto risulta più chiaro e barricadiero: siamo vittime di un sistema economico che si alimenta della propria autodistruzione, traendo profitto non dalla produzione, ma dalla speculazione. Contano i titoli azionari, non i prodotti; la qualità e la quantità di lavoro (intellettuale o manuale) che un manufatto porta con sé sono solo pretesti necessari per avvalorare operazioni finanziarie transnazionali. Non c’è più interesse per la trasformazione, la riattualizzazione, la riconversione. Meglio buttare via tutto e risorgere sotto altra forma, altri marchi, altri sorrisi splendenti.
Peccato che per tutto questo, e cioè per la soddisfazione di pochi, il prezzo da pagare sia sempre più alto, offensivamente alto, maledettamente alto, e cioè la condizione esistenziale sempre più precaria di milioni di lavoratori: ostaggi di un banditismo imprenditoriale che non ha nemmeno più l’interesse a scambiarli o riqualificarli, ma preferisce incorporarli al destino della fabbrica una volta esaurita la loro funzione storica (un po’ come se gli antichi egizi, una volta terminata una piramide, vi avessero murato dentro gli schiavi utilizzati per costruirla).
Il testo di Ligabue porta a chiedersi che cosa si può fare per non essere così drammaticamente complici. In particolare l’amletica questione diventa il cruccio dei manager. Oggi le carriere, anche dirigenziali,  sembrano sempre più mandati a termine, contratti a progetto, con obiettivi di corto respiro. Vale ancora la pena investire così tanto in autoformazione per poi ridursi a eseguire ordini totalmente decontestualizzati dalla realtà sociale? Quando torniamo a casa dalle nostre famiglie, con quanta sporcizia sulle mani accarezziamo il volto dei nostri figli? Con quanto veleno in gola baciamo i nostri cari? Cosa ce ne facciamo del nostro prestigio e della nostra retribuzione quando spegniamo la luce e cerchiamo di prendere sonno? Siamo manager o mercenari?
Questa è la sottotraccia di Il muro del suono.
Il video mette in evidenza alcune scritte che compaiono in stile graffito sui muri della fabbrica dismessa:

- Defibrillatore culturale. Energia da storia arte e lotta
- Mi fa male la memoria a breve termine
- Pensiero
- Solo questione di prospettive
- Coincidenza un cazzo
- Scusa! Ma è un mondo di scuse


Sono come rapide annotazioni sul taccuino del cervello, ma estremamente potenti perché hanno il valore di attivatori di scintille che illuminano una convinzione pronta a farsi comportamento e a renderci più forti nel metterci contro la tentazione che tanto è così e niente si può fare.

martedì 11 novembre 2014

Canzoni e Censura

Un curioso libretto mi ha fatto compagnia durante un viaggio in treno per Roma. Si tratta di L’importante è proibire. Tutto quello che la censura ha proibito nelle canzoni di Maurizio Targa (Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, Roma , 2011).


Si tratta di un volume ricchissimo di aneddoti che, aldilà dell’aspetto tecnico (che riguarda gli addetti ai lavori), getta luce su alcuni aspetti della nostra vita culturale nei quali ci troviamo immersi, in particolare sull’uso e la diffusione di certe parole. 
La commissione preposta alle sforbiciate morali agiva non solo sulla lettera, ma anche in nome di un’interpretazione del tutto soggettiva dei commissari stessi, costringendo gli autori a purgare i testi, talvolta a snaturarli. 
Senza entrare nel merito di molti casi anche famosi di cui si trovano agevolmente notizie in merito, come a proposito di 4/3/1943 di Dalla o L’importante è finire di Mina, preferisco osservare come sia sempre storicamente evidente la relatività del punto di vista censorio, totalmente subordinata al potente di turno e al pensiero che si vuole divulgare e tutelare. In particolare fa molta pena osservare che siano stati proprio i governi democratici a operare i tagli più assurdi e perversi, incarognendosi nel segno di moralismi di scarsissimo pregio, facendo fare una illustre figura a culture spesso tacciate di autoritarismo come quella della Chiesa Cattolica Apostolica Romana che in campo di musica popolare si è invece sempre dimostrata sorprendentemente pronta ad accogliere le novità.
Un caso non da poco e molto recente, riguarda il periodo immediatamente successivo alla tragedia delle torri gemelle. Diversi programmatori radiofonici americani scelsero di non mandare in onda tutte le canzoni che contenevano nel titolo o nei loro versi ripetuti accenni a concetti come fuoco, volo, aereo, polvere, incidente, ali, inferno, sangue. Qui propriamente non si tratta di censura di Stato, ma è evidente l’applicazione del giochetto per cui la parola viene cassata in quanto portatrice di uno spettro semantico non completamente controllabile. Ecco qui la libertà dei cittadini americani: quella di essere considerati stupidi.
Un caso diametralmente opposto invece è quello che rivela come la prospettiva della censura in alcuni casi abbia svolto un ruolo positivo nel salvare l’artisticità e la poesia di un brano. Ecco un esempio: pare che Roberto Vecchioni abbia scritto il testo di Luci a San Siro in risposta a un discografico che lo accusava di scrivere in modo antiquato. Per dimostrare la sua attualità Vecchioni si lascia andare a espressioni non proprio fini, ecco un esempi tra gli altri:

Fatti pagare, fatti valere,
più lecchi il culo e più ti dicono di sì
e se hai la bocca sporca che importa
tienila chiusa…

Questa frase, come altre, verrà risistemata dall’autore, dando vita a un capolavoro equilibrato e perfettamente chiaro pur nell’uso (intelligente) degli eufemismi.

Il richiamo al mondo delle aziende viene spontaneo: da quando la lingua inglese è diventata la portavoce ufficiale del New World Order si assiste a una ridicola ostentazione di una terminologia gergale che personalmente non trovo per niente originale né utile. Anzi, considero la scelta di non tradurre dall’inglese determinate parole o la sostituzione di quelle italiane con motti anglosassoni un modo per nascondere, dietro la pretesa di un intellettualismo un po’ esotico, una sostanziale mancanza di contenuti. Specchio dei tempi…

mercoledì 5 novembre 2014

Eugenio Finardi - Cadere sognare

Nel 2014 è uscito un disco per la Universal che è passato (ma che strano!) quasi totalmente inosservato. Si tratta di Fibrillante di Eugenio Finardi, un disco arrabbiato e coerente, come non se ne fanno quasi più.
Le notizie positive sono almeno due: la prima è che la canzone d’autore non è morta sotto le cannonate dei reality canori, la seconda è che il nostro ambiente musicale, ormai pecorinato alla superficialità del pop più ostentato, evidentemente riesce a trovare ancora qualche euro per divulgare un messaggio intelligente.
Una persona coerente e al di sopra di ogni sospetto come Finardi, dopo un abbondante decennio di esplorazioni musicali (blues, fado ecc.), ritorna ai temi della sua gioventù per riscoprirli attuali. In più li condisce di maturità, consapevolezza e poesia.

Eugenio Finardi oggi
Fibrillante è un album che parla dell’attualità socio economica come solo i grandi dischi rock sapevano fare e obbliga chi ascolta a prendere una posizione.
Qui segnalo la canzone Cadere sognare, gratificata addirittura da un doppio passaggio televisivo alla Gabbia di Gianluigi Paragone.
La musica, col suo incedere faticoso e tormentato, sottolinea un testo che descrive il fallimento professionale e umano di una persona cresciuta obbedendo ai dettami della società e poi ritrovatasi improvvisamente ai margini di tutto, a partire dal licenziamento perché la sua azienda ha delocalizzato produzione e uffici. Il crollo di autostima porta all’isolamento, all’alcolismo e alla voglia di riscatto urlata con rabbia:

Classe dirigente d'imbroglioni, sfruttatori senza senso del domani, senza voglia di sporcarsi mai le mani, ideologi cresciuti alla Bocconi. Il vostro liberismo mi ha ammazzato, di ogni mio sogno derubato, ormai anche mia moglie mi ha lasciato, e adesso sono rovinato…

Fino a maturare, con impeto d’orgoglio, il senso di vendetta, anch’esso inciso senza mezze misure:

E grido finché vi vedrò pagare, maiali senza il minimo pudore, e spegnere quel ghigno che fa male, che offende chi non riesce a respirare. Ho chiuso con la società civile, con i vostri furbi giochi di parole, che alla fine resta sempre tutto uguale e aspetterò seduto in riva al fiume, fino a che non vi vedrò cadere giù e non tornare più!

C’è tutta l’innocenza del rock in queste parole, che per economia testuale descrivono una situazione simbolica, ma che a ben vedere raccontano molto di più del caso umano narrato in prima persona. Finardi infatti mette in chiaro che il fallimento non riguarda un uomo, ma un intero sistema, di cui probabilmente siamo tutti un po’ complici, a partire da quando contempliamo con indifferenza le pedine che cadono intorno a noi, pensando che a noi non toccherà mai. È un po’ la vecchia storia di ignorare le cose perché finché le ignoriamo ci sembra che non esistano. E invece tutto accade e l’erba grama continua a crescere.
Portare coscienza nel proprio ambiente di lavoro e discuterne in modo realistico e propositivo potrebbe già contribuire a colorare la realtà di una luce quantomeno più vera e passo a passo diffondere una mentalità in grado di portare soluzioni e individuare percorsi alternativi.

Perché al punto di non ritorno siamo davvero vicini.