Il blog di
Piero Chiappano


Ispirato a una canzone di Bruce Springsteen, Land of Hope and Dreams, questo spazio sostiene che sono la speranza e i sogni a guidare le azioni degli uomini. Chi dice che siano i soldi ha solamente vissuto male una sconfitta.
Questo spazio è dedicato al mondo del lavoro, di cui approfondisce limiti, potenzialità, contraddizioni e utilizza come chiave di lettura la musica, che diventa metafora di accesso all'autoformazione e alla consapevolezza di sé.

Land of Hope and Dreams

"This train carries saints and sinners, this train carries loosers and winners,
this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls..."

Bruce Springsteen - Land of Hope and Dreams (2001)

giovedì 29 dicembre 2011

Yes I Am - Un anno dopo

Alla fine del 2010 avevo dedicato alcuni post a Yes I Am, il progetto musicale legato alla cultura aziendale promosso dall’azienda per cui lavoro e realizzato in collaborazione col CPM Music Institute di Franco Mussida. Trascorso un anno, è opportuno tracciare un bilancio complessivo dell’evento.
I club Virgin Active presso cui il cd di Yes I Am era in vendita hanno realizzato circa 20.000 euro di fatturato (quasi 4.000 copie vendute) da devolvere in beneficenza a Virgin Unite, la società di fund raising del gruppo Virgin.
Il video nel mese di dicembre 2010 è stato trasmesso sulla homepage di Repubblica.it e successivamente è stato inserito nella homepage di Virgin Careers, il canale tematico del gruppo Virgin presente su Youtube, dove tuttora fa bella mostra di sé.


Il progetto è stato illustrato nell’estate 2011 durante un incontro di HR Community Academy (la principale community che riunisce i direttori Risorse Umane delle aziende presenti sul territorio italiano) come testimonianza originale e coerente di employer branding. A ottobre 2011 è stato premiato dalla stessa organizzazione come best practice di recruiting e selezione.
Il progetto è stato segnalato in U.K. alla sede generale del Virgin Management Group ed è stato premiato il 20 settembre in occasione della Star of the Year 2011 (cerimonia annuale in cui il brand internazionale celebra i suoi successi) con grande soddisfazione del sottoscritto che si è presentato alla notte di Londra insieme al suo collega Marco Cerutti, il curatore di tutti gli aspetti organizzativi di Yes I Am.


La cerimonia, che si è svolta alla presenza di Sir Richard Branson e della sua famiglia, si è tenuta nel roof garden di Kensington Road, un posto incantevole di proprietà del gruppo Virgin ed ha visto riunite le rappresentanze delle principali società del gruppo (da Virgin Atlantic a Virgin Mobile, da Virgin Money a Virgin Limited Edition ecc.): buon cibo, buona musica e buona conversazione.
Marco ed io abbiamo poi concluso la nottata dalle parti di Soho dove in un club, sorseggiando una pinta della mitica birra London Pride, abbiamo ascoltato un power trio rock di giovani musicisti molto bravi che svisavano dagli AC/DC ai Killers.

Piero e Marco tra sir Richard Branson e sua figlia Holly
Credo che un aspetto da non sottovalutare di Yes I Am sia proprio la visibilità e il contatto che ha creato all’esterno dell’azienda. Si tratta di un segnale molto positivo su cui riflettere. Le aziende, soprattutto nei periodi di crisi, tendono a somatizzare le apprensioni e a chiudersi in se stesse ancora di più di quanto non siano abituate a fare, ma così facendo si perdono i vantaggi del confronto e la possibilità di trovare spunti di lavoro in organizzazioni che si credevano diverse e invece sono attraversate da vicissitudini simili. Nel corso delle presentazioni del progetto ho potuto constatare di persona gli sguardi dei miei colleghi di altre aziende passare dallo scetticismo/incredulità all’approvazione entusiasta e ancora una volta ho avuto la conferma che su troppi luoghi di lavoro ciò che manca non è l’intelligenza, ma la passione e la spontaneità.
E ciò che è peggio è che ci si rassegna a questo: ho il sospetto che il pessimismo della ragione riesca a mietere più vittime delle crisi finanziarie.

martedì 20 dicembre 2011

Politica italiana - I Fought the Law

Le recenti vicissitudini della politica italiana suggeriscono una metafora grottesca.
Immaginiamo l’Italia come una grande azienda in cui tutti i contribuenti-lavoratori sono anche i consumatori dei beni che essa produce. L’azienda Italia, che per ragioni di employer branding ha sempre vissuto al di sopra delle sue possibilità, si trova messa alle strette dai creditori e deve attuare un piano d’emergenza per salvarsi la pelle (la faccia l’ha persa da tempo). Il consiglio di amministrazione, quasi unico al mondo ad avere un Presidente senza poteri, non potendo più nascondere l’incapacità-irresponsabilità-immoralità di una classe politica-dirigente che ha cercato per anni di occultare la realtà dei fatti economici poggiandosi su un apparato di marketing e comunicazione estremamente kitsch, preme affinché la suddetta classe si faccia da parte per un po’ (niente licenziamenti: le buonuscite sarebbero troppo onerose e compromettenti) e la sostituisce con un manipolo di grigi e reversibili manager della crisi: quei preziosissimi individui che ovunque li metti fanno le stesse cose senza guardare in faccia a nessuno. Non hanno tessere in tasca, ma se sono giunti fin lì da quasi perfetti sconosciuti all’opinione pubblica, qualche conoscenza l’avranno pure avuta.
Poverini i nuovi arrivati, non hanno nemmeno il tempo di predisporre strategie di crescita e sviluppo: i creditori hanno fretta, sono stanchi di essere presi in giro e sono molto abili nel seminare il panico tra i contribuenti-lavoratori.
Così i nuovi manager della crisi adottano la soluzione più rapida: i mitici tagli al personale. Riduzione della spesa mediante razionalizzazione dell’impiego pubblico? Ma no, cosa andate a pensare! Qui si fa metafora e quindi per tagli intendiamo ridurre il potere d’acquisto dei consumatori-lavoratori a cui viene aumentata la pressione fiscale (dall’IMU all’IVA). E già che ci sono li prendono anche in giro: prima promettono di liberalizzare la vendita dei medicinali di fascia C – fatto che avrebbe comportato la creazione di posti di lavoro e l’abbassamento dei prezzi – e poi ritirano la proposta per le “pressioni pazzesche” (così le ha definite il ministro dello sviluppo) delle lobby (che poi sarebbero i titolari di farmacia, categoria che non credo essere famosa per il peso politico). Viene ritirata anche la proposta di liberalizzare le licenze dei taxi sotto pressione dell’altrettanto incredibilmente potente lobby dei taxisti  (a proposito, se siete a Roma al di fuori delle mura aureliane può succedere che il vostro taxi arrivi 40 minuti dopo la chiamata o che non arrivi del tutto, mentre se siete a Fiumicino e dovete andare a Ostia potete ritenervi fortunati se trovate qualcuno vi ci porta).
E via così di contraddizione in contraddizione, coi contribuenti-lavoratori sempre più vessati e sotto ricatto occupazionale e la classe politica-dirigente sempre più intoccabile e privilegiata.  Proprio quest’ultima, tra l’altro, al momento opportuno farà in modo si screditare l’operato dei manager della crisi e utilizzerà i suoi motivatori aziendali (Vespa, Vinci, Signorini, De Filippi, D’Urso, Marcuzzi, Panicucci, Toffanin ecc.) per convincere i contribuenti-lavoratori che in fondo in questa azienda non si sta poi così male e comunque dalle altre parti è peggio.
Tutto questo mi fa ricordare una vecchia canzone di Sonny Curtis dei Crickets, reinterpretata in numerose versioni tra cui spicca quella di Joe Strummer e i suoi Clash (1979): I Fought the Law.

Spaccando pietre sotto il sole bollente
Ho combattuto la legge e la legge ha vinto
Avevo bisogno di soldi perché non avevo nulla
Ho combattuto la legge e la legge ha vinto.

Joe Strummer e la sua Fender Telecaster
Dopotutto l’ha detto anche il capo dei casalesi che lo Stato vince sempre, ma poi chi se ne frega: hanno trovato la bara di Mike Bongiorno e quindi: allegria! Poi tra poco ci sarà il capodanno e finalmente potremo fare il trenino con una musica nuova: non più la solita samba trita e ritrita, ma la mirabolante Ai se eu te pego di Michael Telò (ma chi cavolo è?) così ci sentiremo tutti fighi come Pato del Milan.
Ora, non dico “Ridateci Joe Strummer” –  che sarebbe troppo –  ma almeno “Ridateci Pelé”!

mercoledì 14 dicembre 2011

Musica rock e customer experience

Ormai da alcuni anni consulenti e formatori aziendali invitano la popolazione aziendale ad appropriarsi del concetto di customer experience, che rispetto al customer service porta a una serie di approfondimenti significativi. Se nella concezione consueta ci si concentra su come si eroga una prestazione, con la customer experience si crea il focus su ciò che il cliente prova mentre sperimenta il servizio. È infatti l’esperienza a determinare il valore di un servizio, non il servizio in sé: lo stesso caffè bevuto in una stazione ferroviaria e in piazza San Marco a Venezia avrà un prezzo sensibilmente diverso proprio perché i contesti ispirano contenuti differenti, con l’approvazione del cliente che è spontaneamente portato a cogliere e giustificare la differenza tra valore d’uso di un bene/servizio e suggestività del vissuto.
Detto questo, possiamo arrivare a definire la customer experience come la capacità di un’azienda di coinvolgere emotivamente il cliente facendogli vivere un’esperienza che sia personalizzata, memorabile, di cambiamento. Quanto più questi concetti saranno sviluppati e tanto più il valore giustificherà il prezzo.
I musicisti rock sono stati tra i primi a capire l’importanza della customer experience, pur senza bisogno di apparati teorici.
Perché un concerto rock può permettersi di costare anche più di dieci  volte il prezzo di un greatest hits? Perché soddisfa esigenze diverse. Se infatti nel caso della compilation si appaga la percezione estetica, nel caso del concerto si crea un contatto quasi fisico col pubblico che rende il momento unico, da ricordare, tramandare e associare a un particolare momento di vita e spesso crea la forte sensazione di uscirne rigenerati e trasformati. In più il concerto rock assume il significato di testimonianza aggregativa di una comunità che si riconosce in determinate linee di comportamento e di condivisione di valori, confermando identità e appartenenza. Non sorprende quindi che proprio i musicisti rock abbiano fatto passi in avanti in questa direzione.
Bruce Springsteen ad esempio, accorgendosi dei tanti fan che portavano i bambini ai concerti tenendoli sulle spalle, ha avuto l’idea nel corso dei tour dell’ultimo decennio di farne salire sul palco uno ogni sera per cantare una strofa di Waitin’ on a Sunny Day.


Similmente gli U2 nel corso del loro 360° Tour (2009-2011), hanno più volte ospitato sul palco fan che dalle prime file esponevano un cartello con scritte del tipo: “May I play your guitar?”. Bono, tra lo stupore e l’invidia generale, consegnava la sua preziosissima Gretsch verde metallizzato al fan che accompagnava il cantante in All I Want Is You o in altre ballad .


Un esempio di carattere diverso, ma sempre legato alla customer experience, riguarda l’idea di alcuni produttori di chitarre come Fender e Gibson di realizzare modelli famosi con specifiche modifiche dettate  da guitar heroes e accompagnati dal loro autografo serigrafato o inciso sulla tastiera ( i cosiddetti modelli signature). Questo per far sì che l’aspirante chitarrista viva più intimamente il feeling coi suoi modelli stilistici di riferimento, avvicinandosi alle loro sonorità e al loro approccio allo strumento.

Fender Stratocaster John Mayer signature
Un’altra nota può riguardare la catena internazionale di pub Hard Rock Cafe: qui la consumazione tradizionale diventa un pretesto per sentirsi proiettati in un mondo alternativo creato grazie ai memorabilia rock, che realizza un considerevole upselling con le t-shirt indicanti il logo e il luogo dell’acquisto.

martedì 6 dicembre 2011

Dave Carroll e il customer service

Dave Carroll, un musicista country canadese, nel 2008 è stato protagonista involontario di una significativa vicenda di customer service.
Vola per lavoro da Halifax a Omaha e durante uno scalo intermedio assiste dal finestrino allo sbarco dei bagagli condotto in modo disattento e maldestro dal personale di terra. In particolare vede maltrattare la custodia della sua chitarra acustica (una Taylor del valore di 3.500 dollari) di cui poi scoprirà la rottura netta del manico. Subito protesta tra l’indifferenza generale, passa allora al reclamo ufficiale alla compagnia aerea – la United Airlines – che viene però respinto in quanto presentato fuori tempo massimo (24 ore). Sentendosi preso in giro, prende la geniale decisione di vendicarsi in questo modo: scrive una canzone dal testo esplicito United Breaks Guitar, realizza un video altrettanto chiaro e lo mette su Youtube.


La risposta del pubblico ha dell’incredibile: a un mese dalla pubblicazione (luglio 2009) 5 milioni di persone hanno già visto il video e un anno dopo siamo a 10 milioni di clic. Il fenomeno virale, amplificato dall’interesse della carta stampata, contagia anche la borsa: le azioni della compagnia aerea calano rapidamente e la United Airlines scopre di trovarsi in difficoltà per via di un serio danno d’immagine.
La United Airlines decide allora di presentare le sue scuse ufficiali, dichiarando di voler imparare dalla vicenda: utilizzerà i video di Carroll (che nel frattempo ci ha ricamato una vera e propria saga di tre canzoni) per le sue sessioni di training.
Dave Carroll trae da tutto questo una notorietà inaspettata: i suoi video arrivano a un pubblico ben più vasto di quello confinato negli steccati del country (la settimana successiva alla sua pubblicazione, United Breaks Guitar risulta essere la canzone più scaricata su iTunes Music Store) e diventa un conferenziere molto richiesto dalle aziende per parlare di customer service.
Anche la Taylor Guitars sfrutta il pasticcio a suo favore. Bob Taylor, fondatore e proprietario della benemerita azienda, posta un video su Youtube e sul sito della sua compagnia in cui si impegna a regalare a Carroll due chitarre a scelta del musicista e coglie l’occasione per dare notorietà alle sue strategie di servizio al cliente (già più avanzate e sostanziali dei suoi più noti competitor).

Bob Taylor, founder e owner di Taylor Guitars

Cosa ci insegna questa storia? Innanzitutto che il passaparola – una risorsa completamente gratuita – ha il potere di creare e di distruggere ben più di tante teorie studiate a tavolino (contiene infatti il pericoloso elemento della generalizzazione: qui siamo di fronte a un caso in cui pochi dipendenti di una grossa compagnia hanno gestito male un reclamo, ma United Breaks Guitar induce a pensare fin dal titolo che questo sia il comportamento medio dei lavoratori della compagnia in tutti gli scali), poi che le aspettative tradite sono il peggior affare che un’azienda possa commettere nei confronti dei clienti, infine che il personale di un’azienda va educato ad agire con intelligenza e autonoma personalità perché quando si tratta di pagare un servizio tutti i consumatori sono adulti e pretendono di essere trattati come tali.

lunedì 28 novembre 2011

John, Yoko, gli indignados e Wall Street

In questi giorni l’informazione ha trasmesso un video imbarazzante in cui si vede un poliziotto americano spruzzare del gas urticante sui volti di alcuni giovani in pacifica protesta nei viali dell’università della California Davis, a San Francisco.


A sostegno del filmato alcuni TG hanno mandato in onda Give Peace a Chance di John Lennon. Il fatto non è casuale, vediamo perché.
John Lennon e Yoko Ono si sposano nel 1969 e trascorrono la luna di miele in un modo molto particolare: affittano per una settimana la suite presidenziale dell’Hilton Hotel di Amsterdam e da lì non escono mai. Anzi, aprono la suite ai giornalisti, che dalle 9 del mattino alle 9 di sera li ascoltano parlare –  John e Yoko vestiti di bianco –  di pace e di diritti civili e li immortalano in fotografie e filmati consegnati alla storia sociale del rock. L’evento, denominato bed-in, fa il giro del mondo e la risonanza è tale che la coppia decide di organizzarne uno dall’altra parte del mondo. Il luogo prescelto è il Queen Elizabeth Hotel di Montreal. Qui, in data 01 giugno 1969, viene immortalata in audio e video Give Peace a Chance, con Lennon alla chitarra acustica e un coro festoso e sgangherato di amici e sostenitori.


Il testo, che ruota intorno allo slogan “Date una possibilità alla pace”, è un invito a tagliare corto coi dibattiti inutili e le questioni ideologiche per lasciar emergere il senso del rispetto per l’altro, uscendo quindi dall’occasione della scrittura (la guerra del Vietnam) per assurgere ad invocazione universale.
Da questo punto di vista quindi la canzone risulta ancora attuale: perché la polizia si avventa su giovani pacifici e istruiti? Questi giovani sono solo rei di avere una coscienza sociale che si oppone alla barbarie ipercapitalistica della speculazione finanziaria nel nome di un mondo più giusto, non utopico, ma possibile. In fondo, dal momento che nasciamo e viviamo immersi in un enorme sistema basato sul debito (pubblico e privato) e sul gioco d’azzardo (la borsa), è sufficiente un minimo di informazione per capire come la finanza controlli cittadini e istituzioni. Ci vuole tanto per rendersene conto? E una volta che lo si è capito, perché non si può manifestare la propria contrarietà?
Altri filmati sul web fanno vedere impiegati e manager di Wall Street che brindano festosi da un balcone, guardando sfilare i manifestanti come se fossero scimmiette esotiche o come avrebbero fatto i patrizi romani di fronte alle truppe ridotte in schiavitù di qualche remota provincia orientale dell’impero.


A queste persone (peraltro ex colleghe di molti manager caduti in disgrazia: i nuovi poveri americani falcidiati dalla crisi degli ultimi anni), più che dare una possibilità alla pace, consiglierei di dare una possibilità a se stessi.

lunedì 21 novembre 2011

L'Alberoni del rock

Su segnalazione di un amico ho appena letto l’articolo di prima pagina che Francesco Alberoni ha scritto sul Corriere della Sera in data 01 agosto 2011. Fin dal titolo Il rock, la trasgressione e la stagione delle droghe il sociologo stabilisce una relazione inappellabile di causa-effetto tra musica rock e diffusione delle droghe. Godiamoci la profondità del trattato:

“Tutta la musica italiana, anche negli anni Sessanta, da Modugno a Endrigo a Mina a Battisti, esprime i sentimenti abituali, l’amore. Il rock no. È americano, nasce dall’espansione di sé, dal superamento delle emozioni normali. È espressione di esperienze parossistiche possibili solo con la droga… Tutto è nato negli anni Sessanta negli Stati Uniti e in Inghilterra con una rivoluzione dei valori, del costume, della musica e la contemporanea diffusione dell’Lsd, dell’eroina, della marijuana, della cocaina. Da allora l’uso delle droghe ha continuato a crescere. Oggi ha cambiato le relazioni tra i sessi e non solo nelle discoteche e nei droga party. E modifica le relazioni sociali perché numerosi professionisti che usano quotidianamente cocaina sono diventati emotivamente indifferenti e mostrano una esagerata sicurezza”.

Rispondiamo con ordine:
1)      Il rock non è nato negli anni  Sessanta, ma attorno al 1954 dalle parti di Memphis, Tennessee e vive un breve quinquennio di fulgore assoluto grazie ad artisti come Elvis Presley, Chuck Berry, Little Richard, Jerry Lee Lewis, Bo Diddley, Carl Perkins, Buddy Holly.
2)      Il rock è stato senza dubbio un fenomeno di business corrispondente all’individuazione di un nuovo target di mercato – gli adolescenti americani – ma nello stimolare “l’espansione di sé” e “il superamento delle emozioni normali” non ha fatto altro che riconnettere la musica popolare alla natura più profonda e mitica della funzione artistica (si pensi a Nietzsche e ai suoi studi giovanili sul dionisismo e sul rapporto musica-tragedia) e, se vogliamo essere radicali, possiamo arrivare a dire che il rock non ha fatto altro che rendere mainstream temi e modi già ampiamente diffusi e condivisi nella cultura afro-americana (basta leggere i testi di Robert Johnson per rendersi conto che l’hard rock dei Led Zeppelin non ha inventato nulla).
3)      Negli anni Sessanta il rock modifica la sua destinazione e da fenomeno di evasione diventa veicolo di proposte sociali (da Bob Dylan a Woodstock), dando voce, immagine e significato a un modo di intendere la vita pericolosamente distante dalla celebrazione del sogno americano e per questo inviso ai poteri forti (ben tutelati dalla C.I.A.)
4)      Le droghe erano già ampiamente diffuse nei decenni precedenti in altri ambiti musicali come il rhythm & blues (Ray Charles), il jazz (Charlie Parker), il country (Hank Williams).
5)      La musica europea continentale degli anni Sessanta era penosamente ridicola e passatista rispetto alla  frontiera anglo-americana e in ogni caso c’è modo e modo di celebrare l’amore: non si può certo paragonare l’amore di Luigi Tenco e Jacques Brel a quello di Edoardo Vianello e Rocco Granata.
6)      Le personalità musicali distrutte dalla droga erano in gran parte già minate fin dall’infanzia da situazioni famigliari disperate: così come il temperamento artistico può essere stato favorito dalla sperimentazione di un disagio profondo, non si può escludere che la droga sia stata la conseguenza / risposta errata alla spersonalizzazione provocata dall’incapacità di gestire in solitudine un successo totalizzante e inaspettato (come spiega Ivano Fossati nel recente testo biografico Tutto questo futuro, l’alianazione da rockstar è un fenomeno tutto anglo-americano).
7)      I professionisti “emotivamente indifferenti” e “che mostrano un’eccessiva sicurezza” esistono in tutte le aziende orientate pancia a terra al profitto e il loro potere è direttamente proporzionale allo spadroneggiare di un’etica inversa (si ascolti Il rubacuori dei Tiromancino e La guerra dell’acqua di Ivano Fossati): se proprio bisogna istituzionalizzare un colpevole lascerei stare sia la musica rock che le droghe e metterei sotto accusa la disinvoltura con cui le business school delineano carriere nel mondo della finanza ed evitano ogni abbozzo alla moralità o più semplicemente al pensiero sociale.

Credo insomma che il professor Alberoni non ne esca benissimo e che anzi induca la fastidiosa sensazione che gli intellettuali (soprattutto i tuttologi) siano abbastanza superflui se spiegano così male i tempi in cui viviamo.  Qui poi mi sembra si voglia demonizzare quello che non si comprende e quindi si teme di non poter controllare, che poi è la libertà di pensiero e di parola, che quando è cantata suona meglio e arriva prima.


giovedì 3 novembre 2011

Steve Jobs e i Beatles

Nel 2003, durante un’intervista a 60 Minutes, Steve Jobs vaga alla ricerca di una metafora adatta a descrivere la sua visione del lavoro fino ad imbattersi nei suoi idoli musicali: “Il mio modello di business sono i Beatles. Erano 4 ragazzi con molto talento che tenevano sotto controllo le loro tendenze negative, si bilanciavano a vicenda e le loro canzoni erano grandi, il totale era più della somma delle parti. Così è come io vedo il business: le grandi cose non sono mai state fatte da un uomo solo, ma da un team di persone. Abbiamo fatto così sia in Pixar che alla Apple. Quando erano insieme, i Beatles hanno fatto un lavoro veramente innovativo. Quando poi si sono separati hanno fatto belle cose individualmente, ma non hanno mai ottenuto gli stessi risultati di quando erano insieme. Io vedo il business allo stesso modo: è realmente sempre un lavoro di squadra”.
Il riferimento ai Beatles si rafforza nella monumentale biografia che Walter Isaacson ha dedicato a Jobs (Mondadori, 2011). Steve Jobs racconta di amare in modo particolare una serie di registrazioni pirata in cui è possibile ragionare sul metodo di lavoro dei Beatles: ascoltando versioni differenti di Strawberry Fields Forever, un brano del 1967, Jobs osserva come i Beatles correggano di prova in prova la canzone fino a restituirne una struttura complessa in cui la mania di perfezionismo non è mai inferiore alla carica creativa. Jobs dichiara che alla Apple si lavora in modo simile: si inizia con una versione del prodotto che via via viene rifinita al punto che partendo dal risultato finale si stenterebbe a ricostruire il processo che lo ha generato.
Nel suo iPod, scrive Isaacson, si trovano canzoni che coprono l’intero periodo artistico dei sodali inglesi, ma curiosamente non sono presenti canzoni tratte dai repertori delle rispettive strade solistiche intraprese negli anni Settanta. E a quanto pare nemmeno di John Lennon, personaggio indiscutibilmente affine a Jobs, non solo per gli occhialini tondi, ma per la passione radicale e iconoclasta con la quale ha deciso di interpretare la vita.
Forse la spiegazione sta nella forza del modello d’origine: scrivere una bella canzone per i Beatles non era un traguardo, ma un punto di partenza. Il lavoro di squadra in sala prove consentiva una resa sonora unica, in grado di capitalizzare melodia e sperimentazione, coniugando il gusto popolare per il motivo arioso con le più ardite tecniche di registrazione  multitraccia (è noto che uno dei motivi che spinsero i Beatles a non suonare più dal vivo da Revolver in poi, 1966, fu proprio l’impossibilità di riprodurre sul palco in modo soddisfacente quanto eseguito in studio).
Proprio il fascino esercitato su Jobs dai ripetuti moduli di perfezionamento della canzone rende l’idea della filosofia che l’ha reso grande: se è vero che la canzone è il prodotto, è altrettanto vero che l’architrave armonico che la sostiene e il layout sonoro che la riveste sono la struttura e il design che fanno dell’innovazione un elemento di piacere e di consumo.
“Compito dell’arte – dice Bono degli U2 – è scacciare la bruttezza” e allora tout se tient: con la Apple l’estetica si affaccia nel mare quantico della microtecnologia e la bellezza si trasforma in pane quotidiano.

John Lennon e Steve Jobs: chi s'assomiglia...

venerdì 21 ottobre 2011

La mela di Steve Jobs

Le biografie degli imprenditori costituiscono quasi di regola un pessimo esempio di letteratura manageriale: pubblicate a ridosso di eventi eccezionali (come la morte del protagonista), il più delle volte sfruttano l’emotività del momento ed annacquano i fatti con l’agiografia.
La vicenda di Steve Jobs non fa eccezione: nella percezione comune è ormai un benefattore dell’umanità, che ha cambiato per sempre le nostre vite. La mia idea è invece quella che sia un imprenditore, molto più geniale della media, ma con tutte le caratteristiche degli imprenditori: senso del rischio, visione chiara, interesse per il profitto.
Ha intelligentemente saputo commercializzare idee già note, centrando i gusti del mercato e trovando la chiave per rendere di massa un business che prima afferiva a una nicchia di specialisti, ma da lì a dire che ha migliorato le nostre vite ce ne corre.
Possiamo dire, in via molto generale, che ha facilitato l’accesso alle informazioni, ma non ne ha migliorato la qualità. Mi spiego meglio: le soluzioni della Apple sono contenitori raffinati e utili, ma di per sé non incidono né sui loro contenuti né sulle capacità di discernimento dei consumatori. Il caso dell’iPod è esemplare: la facilità di accesso ai cataloghi musicali non ha certamente permesso la formazione di una generazione che capisce di musica. Anzi, ha diseducato all’ascolto, facendo della musica un sottofondo per altre attività, dove, in assenza di credits, si perde il rapporto con l’artista e l’artigianalità del prodotto a favore di un consumo rapido e spesso nevrotico (non importa che musica ascolti, l’importante è che la ascolti con l’iPod).
I prodotti della Apple rappresentano le nuove dipendenze: la società occidentale è in preda a una psicosi collettiva per cui non si può vivere senza iPod, iPhone, iPad.
Ma di fatto quale uso si fa di questi strumenti? Tremendamente di massa e individualistico: una mole esorbitante di piccoli sfizi quotidiani, ma di perfezionamento personale neanche l’ombra. Così la portata della Apple risulta essere molto più un caso aziendale di successo che segna con forza una svolta di mercato (come fecero ad esempio la Citizen e la Casio per gli orologi digitali e la Swatch per gli orologi al quarzo) e molto meno una tappa fondamentale del progresso umano. Perché le rivoluzioni si fanno sui contenuti e non sulle forme: un conto è scoprire un vaccino o inventare la coltivazione intensiva, un altro è applicare il mouse al computer o leggere un libro su supporto elettronico.
Nella magnificazione dell’imprenditore Steve Jobs ci vedo purtroppo questo: la rassegnazione dell’occidentale medio che, ormai convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili, fa coincidere il benessere con la comodità e la realizzazione con il prestigio di possedere qualcosa che fa tendenza.
Pare inoltre che l’uomo Steve Jobs non fosse un soggetto facile – scarsa capacità di relazione interpersonale, sfruttamento di mano d’opera a basso costo, nessun interesse per la responsabilità sociale – che nemmeno il presagio della morte ha reso più sensibile. Il famoso discorso di Stanford però, aldilà del pathos del momento, resta un invito a trovare se stessi che non lascia indifferenti, se si pensa che è stato pronunciato da una persona adottata, che ha abbandonato la scuola e si è fatto da solo senza farsi abbattere dalle difficoltà.
In definitiva, penso che la figura di Steve Jobs debba essere riportata alla sua dimensione più consona, che sottolineo essere quella imprenditoriale: la figura di un uomo d’affari che ha saputo interpretare il suo tempo, coniugando la microtecnologia con il design e il branding per mutare a suo favore i paradigmi del consumo di massa.
Una mela, quella della Apple di Steve Jobs, meno succosa di quella di Adamo ed Eva o di quelle di Isaac Newton e dei Beatles, ma irresistibilmente attraente.

Loghi aziendali: la mela di Steve Jobs e la mela dei Beatles

giovedì 23 giugno 2011

Never Ending Tour - Bob Dylan

Il 7 giugno 1988 Bob Dylan comincia un tour in giro per il mondo al quale non ha ancora posto termine. Se si eccettua uno stop alla fine degli anni Novanta per ragioni di salute, possiamo dire che promozioni di album e relativi concerti sfumano dal 1988 gli uni negli altri con una continuità impressionante. Tanto più significativo il fatto che Bob Dylan ha compiuto 70 anni da pochi giorni e che è venuto a festeggiare a modo suo (cioè cantando) anche in Italia all’Alcatraz di Milano (22 Giugno). Io ero tra il pubblico e sinceramente qualche domanda me la sono fatta.
Cosa spinge un settantenne – e non uno qualunque: stiamo parlando di un poeta che si studia nelle antologie letterarie di tutto il mondo, del portavoce della controcultura giovanile, di colui che cantando sullo stesso palco ha introdotto Martin Luther King nel suo discorso più celebre (I Have a Dream) – a girare il mondo per esibirsi in club per artisti emergenti, diramando setlist di canzoni che mettono alla prova anche i fan più acculturati, triturando i successi con versioni al limite del nichilismo, uccidendo oggi pretesa di melodia, mangiandosi le parole, con una voce che sembra la puntina di un grammofono che gode nel violentare la gommalacca?
Qui c’è aria di paradosso: canti per comunicare e fai di tutto per non essere capito. Vivi per lasciare un segno di cui nessuno si accorgerà. Chissà, il mondo dell’arte è strano, cosa ne sanno i comuni mortali di come si vive soffocando un dolore che non si sa da dove arriva? Della smania di creatività che tortura le notti, macera i sogni e ci lascia nervosi come un coito interrotto? E poi un conto è il rapporto che i fan hanno con le tue canzoni, un conto è il rapporto che con quelle cose hai tu. E poi questo fatto di non fermarsi mai e di usare il tempo per ruminare il passato: perché lasciare che sconosciuti si godano lo spettacolo del nostro personale regolamento di conti, magari dicendo che non siamo più quelli di una volta?
Se provassimo ad uscire dal mondo della musica per entrare in quello del lavoro, definiremmo l’atteggiamento del caro Bob come Workaholism, la dipendenza da lavoro. L’ossessione compulsiva del “fare a tutti i costi” aliena la persona dagli affetti e più in generale dalle relazioni e di solito cela uno psicodramma privato che non si vuole affrontare né vedere. Si tratta di una malattia che rovina le famiglie e il soggetto stesso, che sostanzialmente si autocondanna al ricatto della prestazione lavorativa e affida a quell’attività il senso del sé, ovattando il suo universo mentale che viene ridotto alla monodimensionalità. Se ne esce solo acquisendo consapevolezza e imparando a leggerne i segnali.
Tornando a Bob Dylan, nel suo concerto milanese del 2011 abbiamo assistito a qualcosa di inaudito. Dylan è noto per la sua immobilità e impassibilità dietro al microfono: non guarda il pubblico ed è sempre tremendamente serio, al limite della minacciosità. Ebbene, questa volta è accaduto che non solo ha più volte accennato a un sorriso, ma si è anche spostato da un capo all’altro del palco mentre cantava, senza chitarra e brandendo il solo microfono, avvicinandosi al pubblico e, in un paio di occasioni, addirittura inchinandosi verso le prime file. Questa cosa, che sarebbe ovvia per qualunque esordiente, per Dylan è diventata la novità del settantesimo compleanno e i fan hanno applaudito soprattutto in questi momenti perché in lui hanno visto l’uomo, non la macchina per suoni e canzoni. Non possiamo sapere se se ne sia accorto e se questo fatto gli abbia dato piacere, ma è certo che se il suo cruccio è il misconosciuto bisogno di comunicare ciò che sembra incomunicabile, qualcosa questa volta è arrivato e un ritorno c’è stato.
L’uomo-Dylan si è fatto spazio nel roveto ardente delle sue produzioni e la sua notte italiana sarà trascorsa serenamente.


Bob Dylan 2011

lunedì 20 giugno 2011

Clarence "Big Man" Clemons

Il sassofono del rock, Clarence “Big Man” Clemons, non suona più. Se ne è andato, portandosi via quel soffio caldo e profondo, così personale e unico.
Con le note sapeva accarezzare e colpire duro, gigante buono e protagonista di un fatto eccezionale: aver portato nel rock il valore dell’amicizia.
La vicenda è nota. Chi nel 1975 acquistava una copia di Born to Run si trovava tra le mani una foto di  Bruce Springsteen sorridente, appoggiato a una spalla alta come una montagna. Per vederci più chiaro bisognava aprire la copertina, ed ecco che sul dorso appariva lui, Big Man, sassofono in bocca, occhi verso la camera.
Un disco sull’amicizia, dichiarerà Springsteen, rivelato fin dalla copertina. Un disco sulla gioventù, sul sogno, sulla fratellanza, sul potere della condivisione, in magico equilibrio tra l’anima nera del rhythm & blues e quella bianca del rock & roll.
A tanti quel disco ha cambiato la vita perché nel suo messaggio e nella sua storia c’è ancora oggi il mondo a cui tutti gli amanti del rock vorrebbero appartenere, ma è anche un esempio di come l’amicizia sul lavoro abbia pieno diritto di cittadinanza, di come l’amicizia coltivi gli entusiasmi, ripari le delusioni, accompagni i ripensamenti, sostenga gli sforzi.
Bruce e Clarence si conobbero nel 1971, quaranta anni dopo si sono lasciati. Il destino, niente altro, tutto ha una fine. Ma se c’è qualcosa che forse la musica può fare è quello di dare un calcio in culo alla morte. Perché i suoni rimangono e, se è facile copiare le note, è impossibile rifarle a quel modo. Così il ricordo rimane vivo e splende alto.
Arrivederci paradiso sconfinato di Jungleland
Arrivederci carambola epica di Thunder Road
Arrivederci autostrada libera di The Promised Land
Arrivederci voglia di vita di Out in the Street
Arrivederci dolcezza di luna di Drive all Night
Arrivederci energica malinconia di Bobby Jean
Già, Bobby Jean, un'altra canzone sull’amicizia, lì a ricordarci che diventare uomini vuol dire anche accettare il rimpianto di ciò che non tornerà più. In quel pezzo il sax arriva alla fine, non come un assolo, ma come un fatto necessario e quella nota lunga che si sente mentre il volume sfuma è oggi il suono della nostra tristezza, che è il grido di dolore e di rispetto di chi nella musica rock ci trova un senso e, grazie a musicisti come Clarence “Big Man” Clemons, ce lo troverà sempre.

La copertina di Born to Run

lunedì 21 febbraio 2011

Chiamami ancora amore - Roberto Vecchioni

Un caro amico appassionato di buona musica la scorsa settimana ha messo in condivisione su Facebook un dubbio che lo lacerava da tempo: “Perché esiste ancora Sanremo?”. Domanda lecita se analizzata alla luce della retorica canzonettara, dell’anacronismo musicale, dell’inconsistenza testuale, dell’inoffensività culturale, dell’improbabilità dei capelli tinti e dei look da strapaese che sfumano le differenze tra cantanti, presentatori, ospiti e comprimari. Sta di fatto che, dopo tre scandalosi anni in cui l’inutilità più insolente ha trionfato grazie a vessilliferi impareggiabili quali Valerio Scanu, Marco Carta, Lola Ponce & Giò di Tonno (ma questi dove sono finiti? Roba da far rimpiangere i Jalisse…),  ecco che la risposta è arrivata. Ci ha pensato un uomo di 67 anni, Roberto Vecchioni, con Chiamami ancora amore,  una canzone dal messaggio universale, che rinuncia al minimalismo tipico delle nuove generazioni per parlare addirittura alla coscienza di un popolo e in meno di 4 minuti ci ripaga di tutte le umiliazioni inferteci dal malinteso concetto di nazional-popolare.
Chiamami ancora amore elenca una serie di cose che proprio non vanno (dalla crisi economica, alle guerre preventive, all’immoralità del pensiero unico) e fanno ancora più male se dopo sette decenni di vita si ha la sensazione di non essere mai scesi così in basso. La soluzione? Difendere «questa umanità che è così vera in ogni uomo», continuare a «scrivere la vita tra il silenzio e il tuono» e riconoscersi nella forza delle idee

perché le idee sono come farfalle
che non puoi togliergli le ali
perché le idee sono come le stelle
che non le spengono i temporali
perché le idee sono voci di madre
che credevamo di avere perso,
e sono come il sorriso di Dio
in questo sputo di universo.

Vecchioni descrive con lucida amarezza il mondo che lo circonda e la società in cui vive, ma non si discosta molto dall’esperienza quotidiana di tanti manager, costretti al conflitto tra la coerenza di un pensiero civile e la flessibilità carpiata di molte compagini aziendali, che mutano accento a ogni colpo di tosse degli azionisti e sottomettono il talento alla soggettività estrema di tante valutazioni della performance, promuovendo il cinismo di chi pensa per sé e coltiva la propria carriera e il proprio spazio vitale come se non ci fosse niente di più costruttivo. Vecchioni ripropone a voce spiegata, come un oratore d’altri tempi, il senso necessariamente comunitario dell’esperienza di vita e porta l’uomo a riflettere sulla sua responsabilità nell’essere l’unico vero protagonista dei processi di trasformazione sociale e così

questa maledetta notte
dovrà pur finire,
perché la riempiremo noi da qui
di musica e di parole.


Chiamami ancora amore è un manifesto programmatico, un documento di resistenza intellettuale, ma soprattutto una dichiarazione d’amore per quella creatura sempre più piccola, ma ancora così preziosa che si chiama uomo. E se per dire queste cose a 11 milioni di persone per 5 sere di seguito è necessario il festival di Sanremo, personalmente sono anche disposto a sopportare qualche Albano di troppo.
Questa canzone resterà a ulteriore conferma che la poesia in musica non conosce steccati né di classe né di ruolo.

mercoledì 2 febbraio 2011

Coaching e musica leggera

“Coaching” è un termine che adombra una molteplicità di significati e approcci. Nell’accezione più operativa, sensata e meno sensazionalista possibile, mi piace definirla come una pratica messa in atto da un facilitatore che, attraverso lo strumento del dialogo, porta il discente a trovare da solo il modo per colmare i suoi gap, dopo aver acquisito consapevolezza e assunto responsabilità.
Il coaching si applica a tutte quelle situazioni in cui un collaboratore ha bisogno di essere riallineato rispetto ai suoi obiettivi, ascoltato e capito rispetto a una situazione personale, sensibilizzato allo sviluppo di alcune competenze utili al miglioramento della performance. Se condotta con criterio, si tratta di una pratica per niente invasiva e assolutamente costruttiva. Ciò accade in particolare quando il coach si limita a far luce sugli elementi in gioco e a presentare punti di vista differenti, lasciando che sia il collaboratore, stimolato da domande opportune, a razionalizzare il suo stato fisico-emotivo-psicologico o più spesso a identificare uno stato di fatto reale, un ambiente, un contesto situazionale.
Successo e insuccesso del coaching dipendono quasi esclusivamente dalla qualità del coach e dalla sua capacità di sottolineare i tratti salienti del processo in atto. A questo punto può entrare in gioco la musica, perché ci sono molte canzoni anche italiane che trattano temi affini alle implicazioni del coaching. Tralasciando i casi estremi che trattano di suicidio come Meraviglioso di Domenico Modugno (canzone riportata in auge dai Negramaro), Breve invito a rinviare il suicidio di Franco Battiato, Non devi dire mai più di Gianni Togni, …E dimmi che non vuoi morire di Patty Pravo, Guardati indietro di Umberto Tozzi, e i testi retorizzanti di Un giorno migliore di Paolo Belli e Non mollare mai di Gigi D’Alessio, incontriamo finalmente qualche canzone adatta ai nostri scopi.
Uno su mille di Gianni Morandi –  il cantante-coach per eccellenza (“Dai che ce la fai!”), interpreta con convinzione un testo intenso, spalmato su una musica d’immediato impatto: «Tu non sai che peso ha questa musica leggera / ti ci innamori e vivi ma ci puoi morire quando è sera».
Non farti cadere le braccia di Edoardo Bennato – l’autore ricorda la sua adolescenza napoletana e la mamma che gli grida: «Non devi voltare la faccia / non arrenderti né ora né mai».
Un giorno credi di Edoardo Bennato – un classico della musica leggera che dipinge lo scarto tra ciò che dovrebbe essere e ciò che purtroppo è: «Mentre tu sei l’assurdo in persona / e ti vedi già vecchio e cadente…».
La leva calcistica della classe ’68 di Francesco De Gregori – il piccolo Nino, calciatore in erba, viene allineato su ciò che realmente è importante: non la trasformazione di un calcio di rigore, ma il coraggio, l’altruismo e la fantasia.
Ragazzo mio di Luigi Tenco – in un dialogo immaginario una mamma spiega al figlio la differenza tra l’uomo e l’acchiappanuvole e gli ricorda che «Appena si alza il mare / gli uomini senza idee / per primi vanno a fondo».
Nun me portà a casa di Franco Califano – il maestro dà il meglio di sé imbastendo uno struggente monologo in endecasillabi: la storia di un alcolizzato che racconta la sua situazione a un amico e grazie alla capacità di ascolto  di quest’ultimo (in questa canzone il coach non parla mai) arriva da solo a trovare un motivo per tornare dalla moglie e ricominciare da zero.
L’elenco ovviamente non è esaustivo, ma spero sia sufficiente per inquadrare il tema secondo una prospettiva popolare e vicina alla realtà e per sostenere la tesi che il coaching produce risultati stabili e non estemporanei solo quando trova il modo di accarezzare l’intimità psicologica di una persona, senza vincolarla a standard di pensiero che la allontanano dalla naturalità del proprio essere.